Cetto la Qualunque diventa re ma i suoi sudditi ridono poco
di Roberto Nepoti La Repubblica
Cetto La Qualunque, due e un terzo. Arrivato sul grande schermo dopo una lunga carriera televisiva iniziata nel 2004 ma esplosa con la Gialappa's Band, il personaggio più popolare di Antonio Albanese è diventato protagonista di due film interi (Qualunquemente e questo), più un episodio di Tutto tutto niente niente. Cetto c'è, senzadubbiamente somiglia alla seconda avventura di Garfield quella in cui il gatto rosso, diventato re per caso, impone ai sudditi di mangiare sempre il suo piatto preferito: le lasagne. D'accordo, estendere una macchietta nata per la misura breve degli sketch è sempre cosa delicata però i sette anni passati a cercare il soggetto adeguato non hanno partorito grandi esiti. Il presupposto è che il faccendiere e malavitaro Cetto, corruttore e corruttibile, misogino e addicted de "lu pilu", ormai ritiratosi in Germania a curare i suoi affari mafiosi in ristoranti e pizzerie, venga richiamato in Calabria per visitare la zia morente. La quale zia gli rivela un segreto: Cetto è figlio illegittimo del principe Buffo (eh, eh) di Calabria e un gruppo di nobilastri vuole eleggerlo re di una nuova monarchia, che sostituisca la tartassata repubblica italica. La Qualunque non si tira indietro e qui inizia la parte migliore: l'educazione al trono, giocata sull'antitesi tra la cafoneria di Cetto e il formalismo dei suoi "pari". Per rubare un tormentone ricorrente nel film, Cetto c'è potrebbe essere "la minchiata giusta al momento giusto". S'intravede, tra una gag scatologica e l'altra, l'allusione agli avvenimenti politici odierni, quando il popolo italiano torna a farsi turlupinare e a bersi le promesse più demenziali (ma questi "italiani" siamo noi spettatori e sentirsi definire di continuo amorali e qualunquisti non fa tanto piacere). Però il vero problema è l'orfananza: entrato nel cono d'ombra il leader politico che aveva "ispirato" il personaggio, i riferimenti diventano generici e Cetto fa meno ridere.
Da La Repubblica, 21 novembre 2019
di Roberto Nepoti, 21 novembre 2019