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Con Tarantino è ancora Hollywood vs Hollywood

C'era una volta... a Hollywood si inserisce in un filone di opere che criticano dall'interno la più grande industria cinematografica del mondo. Al cinema.
di Pino Farinotti

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venerdì 20 settembre 2019 - Focus

Sono centinaia i film che raccontano il cinema. Alcuni sono grandi classici. Del resto il tema presenta possibilità infinite. Conosciamo quell'ambiente e sappiamo quali siano le insidie del sogno, del successo, dell'ambizione, strettamente legate al loro opposto, l'incubo, il fiasco, la velleità. Poi naturalmente c'è l'intrigo, il tradimento, il sesso, la violenza, il denaro. Ingredienti irresistibili per le storie. Quentin Tarantino ha aggiunto una scheda al cartello "cinema", col suo C'era una volta... a Hollywood (guarda la video recensione), uno sguardo secondo aggressività e cattiveria alla Tarantino. Si è valso di Brad Pitt e Leonardo DiCaprio, che sono i due leader dello star system americano. E qui nasce un tema suggestivo. C'è stata tanta gente di cinema, decisamente importante, che ha affrontato l'argomento. E quasi sempre in chiave di critica, magari abrasiva. E spesso a criticare l'ambiente che ne ha fatto dei divi sono stati proprio... i divi. Gente di vertice, come i due diretti da Tarantino.

Uno come Woody Allen non poteva esimersi dal raccontare il cinema. Lo fa in Hollywood Ending, la storia di quel regista che fa film osannati dalla critica, da cieco. Una metafora più crudele del dramma e della violenza. Anche Café Society (guarda la video recensione), riguarda Hollywood, in chiave grottesca.
Pino Farinotti

George Clooney, un altro che a Hollywood deve qualcosa, con Ave, Cesare! (guarda la video recensione) dei Coen è stato impietoso. L'eterno contrasto fra cultura e denaro è la chiave prevalente dell'affair Hollywood, dove ha (quasi) sempre prevalso la legge del denaro. Raramente un produttore prendeva i rischi di una storia di qualità, magari tratta da un romanzo. Il finale doveva essere un bacio in primo piano e una musica orecchiabile. Tuttavia ci fu chi pensava alla qualità. Un titolo è È nata una stella, eterno, ben 4 edizioni. Comanda quella del 1954, firmata da Cukor, con Judy Garland, cantante che arriva al successo ma paga dolorosamente nel privato. Ricordabile è I protagonisti di Robert Altman, dove il produttore Tim Robbins, che avrebbe idee di qualità deve rinunciare. In Come eravamo Robert Redford è un giovane romanziere di talento. Non resiste alle sirene hollywoodiane e finisce per tradire se stesso sprecando le sue qualità.

Ne Il prezzo di Hollywood Kevin Spacey è un giovane pieno di buona volontà, ma la città del cinema lo travolge. Gli resta la vendetta, inutile. Un classico è Il bruto e la bella, di Minnelli: scontro fra un produttore cinico, Kirk Douglas, e uno scrittore romantico, Dick Powell. Ma se devo estrarre un titolo unico, esemplare, capolavoro, non può che essere Viale del tramonto, di Billy Wilder, la vicenda della diva del muto Norma Desmond che non si arrende al suo declino e finisce per impazzire e coinvolgere l'ambiguo sceneggiatore William Holden.

Ma eleggo, a protagonista di questo mio intervento, Scott Fitzgerald, che può rappresentare alla perfezione, come uomo e scrittore, il "grande pericolo" del cinema. A metà degli anni Trenta, andò a Hollywood. Credeva di essere accolto come una star, lui il grande scrittore. Ma non fu così. L'eleganza di scrittura, l'armonia del fraseggio, non trovarono accoglienza in California. Scott scriveva i suoi dialoghi, che poi venivano umiliati da sceneggiatori con un vocabolario di 50 parole. Mortificazione per un uomo ormai debole e tristissimo. Finché un giorno Louis B. Mayer, il gran capo della Metro, lo convocò e gli disse che era costretto, a malincuore, a rinunciare alla sua collaborazione: "la tua prosa è un godimento, ma non possiamo fotografare gli aggettivi". Fu il colpo di grazia: salute in caduta verticale, crisi da alcol quotidiane. Scott tentò un'ultima carta, un nuovo romanzo, proprio su Hollywood, che vedeva come il ricorso di una corte rinascimentale, con monarchi e principi, dignitari, giullari, artisti, puttane e faccendieri. Si sarebbe chiamato The Last Tycoon, in italiano Gli ultimi fuochi. Protagonista Robert De Niro nei panni di un produttore che punta, invano, alla qualità. Dopo molti anni Fitzgerald era tornato scrittore vero e sperò di poter ricomporre miracolosamente la salute e di arrestare la caduta. Una felicità di pochi giorni. Morì di infarto, a 44 anni, poco prima del Natale del Quaranta. Il romanzo rimase incompiuto. Comunque, capolavoro incompiuto. Sì, Hollywood lo aveva ucciso, e non era un film.

Non resta che attendere la prossima auto-crocefissione da parte dell'ennesimo cineasta.


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