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Mehdi Barsaoui: «il cinema tunisino è oggi più sociale. Un figlio potrebbe anche svolgersi in Italia»

Ambientato nel cuneo della Rivoluzione dei Gelsomini del 2011, il film sarà al cinema da giovedì 21 aprile.
di Luigi Coluccio

Sami Bouajila (57 anni) 12 maggio 1966, Échirolles (Francia) - Toro. Nel film di Mehdi Barsaoui Un figlio.
lunedì 18 aprile 2022 - Incontri

Premi – tra gli altri – ai festival di Hainan, Cairo, Malmö, Amburgo, statuette per la miglior interpretazione a Sami Bouajila ai Cèsar e a Venezia nella sezione Orizzonti: Un figlio, opera prima del regista-sceneggiatore Mehdi Barsaoui, ha già un lungo percorso fatto di vittorie e competizioni internazionali prima della sua uscita in Italia il 21 aprile prossimo.

Ambientato nel cuneo della Rivoluzione dei Gelsomini del 2011, il film è tutto addosso ai personaggi di Fares (Bouajila) e Meriem (Najla Ben Abdallah), coppia tunisina moderna e abbiente colpita dalla tragedia quando durante un viaggio il loro figlio Aziz (Youssef Khemiri) viene ferito nel mezzo di un attentato terroristico.


Un figlio ha nella sua prima metà una fortissima unità di tempo, luogo e azione, per poi andare verso altre direzioni, spinte, storie. È come se tu avessi letteralmente aperto la “scatola” del film.
Per essere completamente onesti la cosa più difficile per Un figlio è stata la scrittura della sceneggiatura, nel senso che anche se può sembrare compatta c’è stato un grande lavoro su come trovare l’equilibrio fra la parte intima della coppia che sta vivendo questo incubo e la parte un po’ storica, generale, contestuale dove evolvono questi personaggi. Così c’è una prima parte, che dà la base di quello che succede a questa famiglia, la sua disintegrazione, e una seconda in cui vediamo le conseguenze di tutto ciò con il segreto che scopriamo nel film. Dunque mi fa piacere che sia sottolineato il lavoro che c’è stato con la sceneggiatura.

Lavoro di scrittura che è durato quasi cinque anni.
Ci ho messo cinque anni a fare il film, e un po’ più di quattro anni tra la prima riga che avevo scritto e il primo giorno di riprese. Ho iniziato a scrivere il film a fine 2014 e abbiamo girato a settembre 2018, per poi mostrare il film a Venezia 2019. Sono passato attraverso ventitré draft, ma non nel senso di ventitré versioni differenti, ma essendo una sceneggiatura a “strati” ogni volta lavoravo a una parte. Ho iniziato con la trama principale e poi di volta in volta prendevo un lato della sceneggiatura, che sia il protagonista maschile, la protagonista femminile, il contesto politico, il contesto medico. È stata davvero la parte più difficile trovare l’equilibrio fra tutti questi strati qua, però così la sceneggiatura ha dato la “forma” della messa in scena. In tantissime interviste mi hanno chiesto come ho fatto a mescolare tutti i generi che ci sono nel film, e ho sempre risposto in modo molto naturale e onesto dicendo che io non ho fatto niente, è stata la sceneggiatura a dare il ritmo delle scene. L’idea con Antoine Héberlé, il direttore della fotografia, era quella di avere una messa in scena molto organica, di essere molto vicini a questa famiglia e a quello che stanno vivendo.

Nonostante tutti questi “strati” l’ancora principale del film rimangono i corpi e le interpretazioni di Sami Bouajila e Najla Ben Abdallah.
Sì, è così. Ed è stato molto difficile durante la ricerca dei finanziamenti convincere i partner economici, visto che si tratta di un’opera prima, un film molto scritto, ma sono stato fortunato ad avere Sami Bouajila e Najla Ben Abdallah. Sono marito e moglie, con Samiche è molto conosciuto in Francia ed è di origine tunisina, mentre Najla è famosa qui in Tunisia. E i due stanno evolvendo in due mondi completamente diversi, con la carriera francese del primo e quella tunisina della seconda, dove Najla è una vera e propria star, con milioni di follower. Quindi sono stato davvero fortunato nel fatto che abbiano creduto nella mia sceneggiatura, e abbiamo lavorato tantissimo prima delle riprese con cinque settimane di prove. La cosa più importante per me era avere onestà e autenticità, naturalezza. Il film poi è stato girato in sei settimane, che non è poco ma nemmeno tantissimo, dunque non avevamo molto tempo sul set e siamo arrivati già che sapevamo la direzione che volevamo prendere. E a dire il vero non c’è molta improvvisazione, è molto scritto, molto fedele alla sceneggiatura.

Il motore immobile di Un figlio è la figura del padre, non solo nel personaggio di Fares, ma soprattutto per il valore fattuale e simbolico che questa occupa nella società tunisina e nella cultura araba in generale. Tanto che il film si sarebbe benissimo potuto chiamare Un padre o perfino Il padre.
Certo. Il film poteva chiamarsi tranquillamente “Un padre”, come anche “Una madre”, perché vediamo anche la maternità ma dal lato del padre. Un figlio, questo figlio, è il legame tra queste due entità, e per me era importantissimo raccontare la paternità, perché il film parla finalmente dell’idea di che cos’è essere un uomo arabo in Tunisia nel 2011, come anche oggi. Il senso della paternità assieme al senso della maternità, della coppia, della modernità, ma anche se il padre occupa una parte importante del film non volevo lasciare da parte il percorso di questa donna che viene giudicata attraverso lo sguardo accusatore del marito, della società. Il film è un misto di tutti questi elementi, e il figlio è lo starting point per scoprire la realtà di questa coppia, di un paese, di una regione.
 


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