ambra principato
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mercoledì 14 novembre 2018
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cerchi rifugio, calciando un pallone
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Quando guardo un film ne studio gli aspetti tecnici, mi chiedo del perché di determinate scelte stilistiche... è più forte di me.
Ma è proprio quando questo non mi riesce, quando mi dimentico di notare i tecnicismi. E le inquadrature. E i punti di svolta.
E’ allora che so che il film è della pasta giusta: ha saputo incantare.
Ciro D’Emilio ha creato personaggi credibili e ha reso i loro rapporti vivi e appassionati, teneri, disperati…veri.
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Quando guardo un film ne studio gli aspetti tecnici, mi chiedo del perché di determinate scelte stilistiche... è più forte di me.
Ma è proprio quando questo non mi riesce, quando mi dimentico di notare i tecnicismi. E le inquadrature. E i punti di svolta.
E’ allora che so che il film è della pasta giusta: ha saputo incantare.
Ciro D’Emilio ha creato personaggi credibili e ha reso i loro rapporti vivi e appassionati, teneri, disperati…veri.
Durante tutto il film riesci sempre a rimanere con Antonio, con questo ragazzino che ragazzino non si è mai sentito, perché non ha mai potuto permetterselo.
Rimani con lui dall’inizio alla fine. Anche se tu una vita come quella di Miriam e Antonio non l’hai mai vissuta, per tutto il film sei un ragazzino che cerca disperatamente di mettere insieme un puzzle che non ha un disegno, che non coincide, che cambia forma. E cerchi rifugio calciando un pallone.
Abbiamo grandi talenti in Italia e sono convinta che Ciro D'Emilio ci stupirà ancora. Attendo il suo prossimo film e nel frattempo consiglio assolutamente la visione di questo.
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cardclau
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domenica 2 dicembre 2018
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la miseria come malattia
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Il film Un giorno all’improvviso, di Ciro d’Emilio, racconta una storia in quel di Napoli (in certi momenti si scorge il profilo del Vesuvio in lontananza), di uno strato della società alle prese con dei problemi spaventosamente problematici, consistenti come delle grosse pignatte da ventiquattro, quali la povertà che può immiserire, la malattia mentale che imperversa e che spezza, la criminalità che facilmente ne può conseguire, e il desiderio di affrancarsi (che molto, troppo, spesso rimane nella sfera empirea della speranza, e non della realtà). La storia viene narrata, direi, piuttosto bene, e a voce alta. Non è così inquietante come Dogman di Matteo Garrone perché apparentemente la disperazione non la fa da padrona, e la distruttività non viene indirizzata all’esterno, in certi casi alla cieca.
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Il film Un giorno all’improvviso, di Ciro d’Emilio, racconta una storia in quel di Napoli (in certi momenti si scorge il profilo del Vesuvio in lontananza), di uno strato della società alle prese con dei problemi spaventosamente problematici, consistenti come delle grosse pignatte da ventiquattro, quali la povertà che può immiserire, la malattia mentale che imperversa e che spezza, la criminalità che facilmente ne può conseguire, e il desiderio di affrancarsi (che molto, troppo, spesso rimane nella sfera empirea della speranza, e non della realtà). La storia viene narrata, direi, piuttosto bene, e a voce alta. Non è così inquietante come Dogman di Matteo Garrone perché apparentemente la disperazione non la fa da padrona, e la distruttività non viene indirizzata all’esterno, in certi casi alla cieca. Viene preservata almeno un briciolo d’umanità in molti personaggi. Anche nel cattivo, che vive spacciando droga. Non so se possa dipendere dal DNA dei partenopei, gli attori sono quasi tutti, tranne pochi, dei dilettanti, ma la spontaneità è formidabile, così la parlata in certi momenti in dialetto stretto, a tal punto da costringere ai sottotitoli in italiano. Non sembra che stai guardando un film, ci stai dentro, con tutta l’incertezza che ne consegue e che ti accompagna. Non è un giudizio ma una considerazione: il problema che affligge particolarmente la gente di quella classe della società sembra stia nella difficoltà di raggiungere un po’ di consapevolezza della loro situazione e condizione, i non detti si sprecano, non si capisce realmente nulla, e si agisce fondamentalmente di impulso, apparentemente senza un progetto che sia uno. Umiliati dal potere, chi più chi meno, sono tutti deprivati, e quindi la dimensione del loro vivere resta fondamentalmente nella dimensione della sopravvivenza. La madre Miriam (Anna Foglietta), una drammatica e consistente madre psicotica, deve averne combinate troppe, da essere finita sotto custodia del giudice tutelare. Il figlio Antonio Improta (Giampiero De Concilio) fa da genitore alla madre e non ha capito per niente perché il padre li “ha abbandonati”. Sente solo la campana della madre, atrocemente inaffidabile, immensamente dolorosa, assolutamente colpevolizzante, quindi inelaborabile, “il padre li ha abbandonati perché non voleva condividere la madre, la compagna, col figlio, … quindi è colpa sua se lei non sta più con suo lui, rifiutata”. Poi abbandona il figlio al suo destino con questa bella eredità. Peppe Lambiase (Giuseppe Cirillo, II) uno splendido guaglione, una scheggia impazzita della delinquenza, che in fondo avrebbe bisogno di conferme, e di qualche punto fermo di riferimento, anche le ragazze ne sentono la precarietà e non si fanno coinvolgere. Mi è particolarmente piaciuto Mister Colasanti (Biagio Forestieri) nella difficilissima parte dell’allenatore/padre di un branco di adolescenti disorientati, li vuole bene ma non può permettersi di cedere al sentimentalismo. Lui e lo sport un punto di riferimento, deve mantenere la sua solidità anche a costo di nascondere gli affetti sotto la scorza della durezza.
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