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Tre volti: cinema iraniano doc, un'occasione da non mancare

Il digitale consente a Panahi di bypassare le imposizioni di una censura ottusa e di offrire uno spaccato dell'Iran di oggi. Premiato a Cannes e dal 29 novembre al cinema.
di Giancarlo Zappoli

Tre volti

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martedì 30 ottobre 2018 - Focus

Per chi ama veramente il cinema vedere l'ultimo film di Jafar Panahi Tre volti premiato al Festival di Cannes per la sceneggiatura è un'occasione da non perdere. Il motivo è al contempo semplice e complesso: la progressiva sparizione del cinema iraniano dai nostri schermi. A cavallo tra la seconda metà degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta imparammo a conoscere un cinema che era al contempo simile e diverso dal nostro. Simile perché ci ricordava gli stilemi del neorealismo e diverso perché portava sullo schermo una realtà di cui, dopo la rivoluzione khomeinista, sapevamo poco e quel poco era filtrato da preconcetti ideologici che portavano a schierarsi pro o contro.

In una società impostata su una rigida censura in quei film gli autori facevano filtrare il loro pensiero attraverso i ruoli dei bambini ai quali, anche sullo schermo, era concesso dire e fare cose che agli adulti erano proibite.
Giancarlo Zappoli

C'era poi il ritmo narrativo e di montaggio che a molti poteva apparire 'lento'. È rimasta nella memoria di chi era presente in Piazza Grande al Festival del Film di Locarno una serata davvero speciale dell'agosto 1994. L'allora direttore artistico Marco Müller propose alle 7000 persone che affollavano l'immensa sala all'aperto due film in successione. Il programma prevedeva in apertura Sotto gli ulivi di Abbas Kiarostami e a seguire Speed di Jan De Bont. Due modi di fare cinema totalmente differenti ma, al contempo, degni di nota. Chi apprezzava la 'lentezza' del cinema iraniano venne invitato ad apprezzare la 'velocità' di un film in cui si impediva narrativamente una sosta e viceversa.


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In foto una scena del film Tre volti.
In foto una scena del film Tre volti.
In foto una scena del film Tre volti.

Insieme a Kiarostami si faceva conoscere un gruppo nutrito di registi in cui emergeva Mohsen Makhmalbaf (nel 2001 le sale si riempirono per vedere il primo film post 11 settembre Viaggio a Kandahar) a cui si univa la figlia Samira, divenuta regista affermata e premiata nei festival grazie ad un escamotage paterno. All'epoca infatti era il governo che, una volta approvata la sceneggiatura di un film, consegnava l'attrezzatura e la pellicola. Makhmalbaf padre risparmiò in ciak in modo da salvare un quantitativo di pellicola tale da consentire a Samira di girare il suo primo film (non autorizzato) La mela.

L'era digitale ha impedito questa forma di rigido controllo e ha in qualche misura 'democratizzato' l'uso del mezzo. Al contempo però il cinema iraniano ha iniziato a scomparire dalle nostre sale.
Giancarlo Zappoli

Si potrebbe dire che questa affermazione non tiene conto dell'opera di Asghar Farhadi, Il fatto è che dopo About Elly e Una separazione i suoi film non battono più bandiera iraniana e se si guarda al suo ultimo Tutti lo sanno si può apprezzarlo o meno ma non si può certo dire che ci sia rimasto un benché minimo riferimento alle origini culturali del suo autore. Ecco perché un film di Panahi, impedito di uscire dal Paese e anche di girare, diventa molto significativo. Ci mostra al contempo che il digitale consente di bypassare le imposizioni di una censura ottusa e ci propone, ormai caso più unico che raro, un film iraniano doc.


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