Nel film “El Reino”, in originale, Manuel Gómez Vidal (un bravissimo Antonio La Torre) è un politico vicesegretario regionale di successo, che conduce una vita agiata, ha una bella moglie (Monica Lopez) e una figlia che lo adora (Maria De Nati). Vidal è un uomo che si è fatto da sé, con poca istruzione ma con grande acume ed è devoto al Presidente della Regione (José Maria Pou) di cui si vocifera ne sarà addirittura il successore.
Vidal e i suoi compagni di partito sono altresì esempi di corruzione, concussi e concussori, legati a imprenditori e costruttori. In tredici anni Vidal ha messo da parte una fortuna, di cui molti soldi sono stati mandati in Svizzera.
Siamo sulla costa spagnola, presumibilmente a Valencia, in un periodo un po’ precedente, quando si iniziava ad usare gli iPhone per registrare le vite private dei personaggi pubblici. Significative sono le scene della cena lussuosa iniziale, della villa del Presidente della Regione, progettata da un architetto moderno, e la scena ripresa sul motoscafo Amadeus dove imprenditori e politici (non ricorda il caso Formigoni?) brindano insieme e si scambiano regali costosi come orologi d’oro o dispendiose penne a sfere.
Come ha fatto Vidal così molti altri, tra cui un certo Paco (Nacho Fresneda) che in un dato momento viene indagato e arrestato. Manuel cerca di salvare Paco dalla galera ma questi, per scagionarsi e per evitare ulteriori indagini, accusa proprio Manuel di essere stato il mandante delle tangenti e l’ideatore delle corruzioni. Le intercettazioni telefoniche costituiranno delle prove inconfutabili.
Man mano, in crescendo Vidal sarà descritto sempre più come un politico caduto in disgrazia che cerca, in tutti i modi per rivalsa di trascinare con sé il resto dei colleghi. Gli amici si faranno negare e i compagni di partito lo abbandoneranno, nessuno vuole avere più contatti con lui.
Vidal non si rassegna, fino all’ultimo cerca accordi e alleanze con qualcuno contro qualcun altro, sempre con il suo modo arrogante e sicuro che non lo abbandona mai, neanche nella cattiva sorte. A questo punto si mette alla ricerca di prove per far scoprire tutti “gli altarini”, cioè che il sistema delle tangenti è una costante, e non solo nel suo partito, ma in tutto il paese. Però nel momento in cui si vuole accusare tutti, le alleanze saranno molto difficili. Di chi si può fidare ancora? Del suo avvocato? Della giornalista televisiva Amaia Marìn (Barbara Lennie)?
Il film - scritto da Isabel Peña e dallo stesso Rodrigo Sorogoyen - si trasforma quindi in un thriller in cui Vidal dovrà temere, oltre che della perdita del suo ruolo politico e della libertà di cittadino, anche per la sua incolumità. Per sicurezza è costretto a mandare la moglie e la figlia lontano, in Canada, da alcuni parenti.
Meno convincente forse è il j’accuse finale nei confronti dell’apparato mediatico cui interessa solo lo scandalo politico per fare audience, ma che in fondo rappresenta un altro “regno” privo di morale.
Il film - vincitore di sette premi ai Goya 2019 - è girato con un ritmo incalzante e con una camera a mano. La musica – scritta da Oliver Arson - è serrata e ricorda quella martellante e ossessiva dei Kraftwerk, un gruppo tedesco di musica elettronica della fine degli anni ’70. Trasmette bene l’ansia del protagonista che si vuole rifare del fatto che sia stato messo in mezzo e che debba pagare come capro espiatorio di un sistema che è marcio.
Il giovane regista spagnolo aveva già girato un altro film “Che Dio ci perdoni” nel 2016, con Antonio La Torre e Roberto Alamo, un ritratto di due poliziotti, tratteggiati con mano sapiente e interpretati con altrettanto successo, ottenendo già sei premi Goya.
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