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Ali Abbasi: «Border? Una storia al limite tra immaginazione e realtà»

Il regista racconta la genesi del suo film, le allegorie, le influenze e la straordinaria accoglienza ricevuta al Festival di Cannes. Dal 28 marzo al cinema.
di Emanuele Sacchi

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venerdì 15 marzo 2019 - Incontri

Se (quasi) ogni film ha una sua peculiarità da raccontare, una sua cifra stilistica o contenutistica che lo rende unico, è pur vero che - parafrasando Orwell - alcuni film sono più unici di altri. È il caso di Border di Ali Abbasi, rivelazione dell'ultimo Festival di Cannes, dove si è accaparrato il Premio come Miglior Film della sezione Un certain regard. A convincere la Giuria, probabilmente, la capacità del regista di raccontare le piaghe della contemporaneità - la xenofobia, la scissione tra volontà di integrazione e di conservazione della propria identità - ricorrendo a un simbolismo insieme audace e di impatto immediato. Merito del racconto di John Ajvide Lindqvist (Lasciami entrare) da cui il film è tratto, ma le scelte di messa in scena sono tutte di Abbasi, capace di recuperare un'estetica anni '90 (i videoclip "mostruosi" di Chris Cunningham) e adattarla a una storia urticante, sgradevole, pedagogica e misteriosa. Un'allegoria talmente densa di significati da spingere a un'intervista chiarificatrice al regista svedese, incontrato a Milano in occasione della proiezione per la stampa di Border.

Tra le molte ragioni che rendono Border uno dei film più importanti dell'anno c'è la ricchezza di livelli di lettura. Grazie ai suoi simbolismi anche audaci il film permette di parlare di temi della contemporaneità, senza mai mettersi in cattedra.
Emanuele Sacchi

Una delle idee più fantasiose è il ricorso a una creatura della mitologia nordica come il troll. Come è arrivato a questa scelta, o meglio cosa ha cambiato rispetto al romanzo di Lindqvist da cui il film è tratto?
L'idea viene dal romanzo, con il personaggio di Tina che non sa chi sia veramente, scopre via via la propria identità e di essere vissuta in una bugia. A quel punto cerca di trovare se stessa. È il mio primo adattamento, in genere lavoro su soggetti che scrivo e creo personalmente, quindi la difficoltà stava nel voler rendere un certo livello di complessità senza perdere il DNA e la naïveté della storia originale. È stato un processo lungo, durato qualche anno, con alti e bassi, momenti frustranti. Non è stato il processo canonico di trasposizione, è stato più che altro un lavoro intuitivo. La cosa più importante che abbiamo aggiunto è stata da un lato la profondità dei sentimenti - come si possa provare amore, per esempio - e dall'altro l'idea di disporre di un'ulteriore linea narrativa, l'investigazione "noir". Quando le persone mi chiedono a che genere appartenga Border, mi piace rispondere che è un film "gelato". Dentro ci puoi trovare tutti i gusti che ti piacciono: biscotti, caramello... etc. Questo è più o meno quello che abbiamo cercato di realizzare.

Mi sembra che il film giochi, specie nella prima parte, sul fatto che l'aspetto diverso della protagonista possa essere il frutto della percezione altrui, e non necessariamente un dato di fatto...
Quando abbiamo pensato a come rendere i vari personaggi sullo schermo abbiamo cercato un equilibrio tra un aspetto strano, non propriamente umano, e un aspetto non abbastanza strano da non essere umano. Questa ambiguità è al centro del film, si lega a quanto noi sappiamo e quanto ne sappiano i personaggi del film stesso. C'è un'asimmetria tra il grado di conoscenza degli spettatori e dei personaggi che circondano la protagonista. È eccitante, perché lo spettatore ha una certa percezione e pensa fino a un certo punto di sapere più dei personaggi e di lei, ma poi tutto è messo in discussione.


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In foto una scena del film Border - Creature di confine.

È centrale a livello narrativo la scena che fa da spartiacque, in cui la protagonista ha un rapporto sessuale: è un momento di scoperta personale e di presa di coscienza della propria identità. Sembrerebbe quasi un coming of age "queer" o una trasfigurazione di una scena di questo genere. Ha giocato volutamente su questa possibile analogia?
Ho pensato a questo, al fatto che il film potesse anche essere letto come una sorta di romcom "queer", o film di supereroi "queer". In genere mi piace molto quando il cinema queer non parla solo di sessualità ma soprattutto di personaggi. Per esempio, la cosa interessante delle registe donne non è tanto che siano donne, ma che possano regalare un altro modo di vedere i personaggi femminili. E penso lo stesso del cinema queer. O meglio, fino a un certo periodo storico è stato grandioso avere questa nozione di "queer cinema" con il suo circuito e i suoi festival, per proteggere questa realtà. Ma ora credo che sia arrivato il momento in cui non dovrebbe esserci un cinema queer, ma semplicemente un'altra versione di cinema. Sono assolutamente consapevole che stiamo facendo qualcosa che ha a che vedere con la fluidità di genere. Ma non penso a ciò come a un mio contributo al cinema queer. Spero di raggiungere un pubblico più ampio rispetto a quello lgbt. Al contrario, credo ci sia un conflitto nel film, dal momento che abbiamo fatto qualcosa di fortemente incentrato sull'identità sessuale, ma che cerca di ampliare la prospettiva senza limitarsi a questo tema.

Tra le priorità che Border rimette in discussione trovo che ci sia anche un tema sensoriale: viviamo sotto una sorta di dittatura della vista, con tutto ciò che comporta, e il ribaltamento di prospettiva passa anche da una "rivincita" dell'olfatto, di un senso sottovalutato rispetto alla vista. Con il suo lavoro di poliziotta Tina mette a frutto il suo senso ipersviluppato, scoprendo così qualcosa di più anche su se stessa. Forse si vuole dire che diamo troppa importanza a ciò che vediamo?
Ho concepito il film come una love story per persone brutte. Quando abbiamo fatto i casting ho detto ai partecipanti che uno dei requisiti che cercavamo era quello di non essere attraenti. Nel nostro mondo non esiste cosa peggiore del non essere attraenti. Piuttosto è preferibile anche essere un assassino o un criminale. Sarebbe bello se la proiezione di Border potesse trasmettere qualche sensazione anche a livello olfattivo. D'altra parte, John Waters aveva tentato con l'Odorama di stimolare questa percezione. Un altro senso importante per me, e per questo film, è l'udito. L'immagine di fronte allo spettatore appare molto concreta, mentre sul suono c'è meno consapevolezza. Border è in gran parte suono. Per me in genere è una pessima idea mostrare un montaggio di un film senza la traccia sonora che poi avrà effettivamente, perché si restituisce un'esperienza molto differente alle persone.


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In foto una scena del film Border - Creature di confine.

Alla fine la protagonista si trova di fronte a un bivio, etico e identitario. Il finale lascia qualche apertura sul fatto che possa unirsi alla comunità di suoi simili in Finlandia, benché questo possa comportare delle scelte discutibili dal punto di vista etico. Dobbiamo rassegnarci all'impossibilità di una totale integrazione tra specie differenti?
La mia interpretazione personale del finale è che Tina abbia cercato di negoziare tra mondi diversi. Come poi questo venga letto, se in maniera ottimista o meno, dipende dal singolo spettatore. L'importante è che lei possa costruire una terza identità a partire dalle prime due. Lei passa dall'essere una persona a esserne un'altra, a non esserne nessuna e infine a essere entrambe.

Paul Schrader in un post recente sui social network ha scritto di aver molto apprezzato il film. Tra le sue opere c'è il remake di Il bacio della pantera. Mi chiedo se possa esistere un legame invisibile tra questo film e Border, visto che parlano entrambi di un'integrazione, forse impossibile, di una razza non umana nel mondo degli uomini...
Conosco Schrader perché ho seguito dei suoi corsi e lo apprezzo molto, ma non ho visto Il bacio della pantera. Tenne una lezione alla scuola di cinema che frequentavo; in genere ogni regista ha la propria idea di film perfetto. Lui veniva ogni cinque anni e parlava di Taxi Driver (sceneggiato proprio da Paul Schrader, nda). Nella sua masterclass di regia simulava un set lavorando con attori danesi che cercavano di parlare inglese. Il risultato era sempre un disastro e lui diceva cosa assolutamente non andava fatto: era sorprendente, ma non definirei Schrader una mia influenza al pari di David Lynch, per esempio. Quest'anno ero negli Stati Uniti in occasione della notte degli Oscar (Border era candidato per la categoria di miglior trucco, nda) e ho cercato nuovamente di far vedere il mio film a Lynch. Ma lui diceva sempre che il suo dvd o la sua televisione non funzionavano. Allora gli ho scritto per dirgli che sarei andato da lui con un lettore dvd nuovo di zecca. Dopodiché ho ricevuto una mail molto simpatica e bizzarra, scritta tutta in maiuscolo: mi diceva che il film gli era piaciuto, che aveva amato lo stile di recitazione e così via. Quando ci siamo visti abbiamo parlato di molte cose, è stato molto divertente. Quanto alla comunanza di temi con Il bacio della pantera tutto può essere... Ho letto in Inghilterra della questione su Kafka e Metamorfosi e del fatto che una scrittrice avesse già raccontato la storia di una donna che si trasformava in un animale. Non penso che sia una questione di rubare un'idea o di esserne derubato. Credo che, vivendo nella stessa epoca, sia normale essere colpiti dalle stesse cose e rielaborarle con alcuni tratti simili. Recentemente ho visto il film Diamantino, che apparentemente non c'entra nulla con Border, ma ci sono tante scene e momenti che cercano di comunicare qualcosa di simile, ad esempio sulla questione di gender. Penso che sia quello che chiamano "spirito del tempo".


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