Il film non è solo un cinecomics ma una profonda riflessione su cosa voglia dire essere, oggi, donne e afroamericani. Al cinema.
di Lorenzo Ciofani, vincitore del Premio Scrivere di Cinema
Nei crediti di Black Panther troviamo Hannah Beachler (scenografie), Debbie Berman (montaggio), Ruth E. Carter (costumi), Megan Flood (effetti visivi), Sarah Halley Finn (casting), Rachel Morrison (fotografia, prima donna candidata all'Oscar per Mudbound). Nella storia, T'Challa, re di Wakanda, porta in missione due guerriere, mentre a casa sono rimaste la sorella, geniale inventrice, e la regina madre, componente di un'assemblea fatta per metà da donne. C'è una ragazza anche tra gli antagonisti, ma Erik è talmente accecato dall'odio da non concederle nemmeno una parola: solo un proiettile.
Questa visibilità femminile è una delle caratteristiche più interessanti nell'epoca del Time's Up, specie in un blockbuster da duecento milioni di dollari che corona l'altro grande movimento del recente cinema americano, esploso due anni fa con la polemica di OscarSoBlack.
Se da una parte la ricezione italiana rischia di derubricarlo ad ennesimo cinecomics dello scatenato universo Marvel, dall'altra tende a non cogliere quanto si tratti di un evento culturale profondamente americano che quasi prescinde il film in sé. Qualcosa di analogo a quanto accaduto con Wonder Woman (guarda la video recensione). Come Patty Jenkins, Ryan Coogler rappresenta una precisa scelta politica, con le radici nella coscienza civile della sua comunità (le pantere nere degli anni Sessanta...). Tant'è che l'imbarazzante CGI finisce per non svilire davvero il risultato finale.
Individuando le coordinate nell'esaltazione del sontuoso apparato visivo e la cifra sonora identitaria (percussioni sudafricane e senegalesi e brani di Kendrick Lamar), prosegue nel solco dei precedenti lavori: se in Prossima fermata: Fruitvale Station denunciava la violenza razzista e in