Non si può dire che la vecchiaia sia affrontata in termini eufemistici dal cinema contemporaneo. Sebbene si faccia di tutto per portare protagonisti di terza o quarta età al centro delle storie da raccontare, la morte è quasi sempre compagna di viaggio narrativo (si pensi ai due Marigold Hotel, a Ella & John di Paolo Virzì o a La villa di Robert Guédiguian). Vale anche per l'opera realizzata da Richard Loncraine, e interpretata da due mostri sacri del cinema britannico come Imelda Staunton e Timothy Spall.

Ricomincio da noi mescola due sottogeneri del cinema medio di questi anni. Uno è appunto il film per il pubblico over 65 e uno è il ballo come ritorno a sé stessi.

In fondo, è dalla sensuale rivoluzione di La febbre del sabato sera che il cinema spiega la pista da ballo come luogo di rielaborazione delle identità e momento di rigenerazione separata dalle angosce della vita quotidiana. L'adeguamento a diversi stati d'animo e anagrafici - da Shall We Dance? a Jimmy's Hall - è capace persino di recare con sé significati politici: il ballo è sempre espressione di qualcosa, come minimo un'urgenza personale, talvolta un contenuto collettivo.

La protagonista Sandra possiede ambizioni meno politiche, e sembra anzi completamente separata da ogni riflessione esistenziale o sociale a inizio film, quando la scoperta del tradimento da parte del marito innesca la prevedibile crisi personale. Rimettersi in gioco a quella età non è semplice, ed ecco che gli adiuvanti del racconto - la sorella e il quasi-vedovo - soccorrono l'infelice, donandole una seconda chance e soprattutto permettendole, grazie a modelli di vita opposti, di rivelare una parte di sé troppo nascosta. Poi però irrompe la malattia: c'è la moglie di Charlie, colpita da Alzheimer, che giace dimentica di sé e del marito in una struttura per anziani lungodegenti; e c'è il tumore di Bif, con cui fare i conti, scegliendo se vivere ancora e appieno, oppure lasciarsi andare.

Non menzioniamo poi il viaggio in Italia, a Roma, che ancora una volta nel cinema anglosassone rappresenta il sinonimo di assoluto piacere esistenziale prima di fare scelte importanti.

Quindi, volendo restare più lontani dal film e più vicini al senso di questo cinema, che cosa possiamo arguire da Ricomincio da me e titoli simili? Pare evidente che l'allungamento della vita media occidentale e l'affezione che le generazioni mature dimostrano per lo spettacolo in sala sono due ragioni più che sufficienti per dedicare una nicchia di produzione a questi spettatori. Ma c'è probabilmente di più. Il cinema è sempre un dispositivo simbolico e immaginario, un territorio nel quale negoziare desideri e paure. Non è detto che il "feel-good movie" (quelle pellicole girate apposta per far sentire sereno e a suo agio lo spettatore) non contengano aspetti meno luminosi.

Ecco, forse allora film come Ricomincio da noi servono anche allo scopo di venire a patti con la morte, la finitudine, il bilanciarsi del presente (da vivere con pienezza) e della mancanza di un futuro a lungo termine. Un cinema che ha un fondo di incontestabile gravità, anche se ammantato di sentimenti ed emozioni positive.