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Final Portrait, un'opera d'arte può dirsi mai davvero conclusa?

Il film di Stanley Tucci è un viaggio suggestivo nella misteriosa arte del ritratto. Dall'8 febbraio al cinema.
di Claudia Catalli

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Geoffrey Rush (72 anni) 6 luglio 1951, Toowoomba (Australia) - Cancro. Interpreta Alberto Giacometti nel film di Stanley Tucci Final Portrait - L'Arte di essere Amici.
giovedì 1 febbraio 2018 - Focus

Quando si può definire conclusa un'opera d'arte? Probabilmente, come Final Portrait insegna, mai. Non occorre scomodare esperti in materia come Didi Huberman, per dirla solo con Geoffrey Rush nei panni del nevrotico artista Alberto Giacometti è del tutto impossibile riproporre qualcosa di vivo così come gli occhi lo accolgono. Non solo per il fascino dell'incompiuto, ma perché se si tratta di ritrarre esseri umani allora l'oggetto del ritratto è del tutto mutevole, in ogni istante, fino alla più impercettibile smorfia del volto.

L'arte stessa del ritratto è un'arte che parte come fallimentare. Ad ogni tratto, la possibilità della fine - e della definizione - si ritrae. Se la settima arte si pone l'obiettivo di ritrarre a sua volta l'arte del ritratto, può, al contrario, riuscire nel suo intento?
Claudia Catalli

Mentre il regista osserva dietro uno schermo e una cinepresa ritrae un uomo che a sua volta osserva e ne ritrae un altro, cosa succede? "Vale la pena di continuare?" chiede più volte Rush / Giacometti, e se lo sarà chiesto di certo anche Stanley Tucci nel momento di portare a termine il suo film. Che sì, ha un finale, e tuttavia risulta incompleto, mancante, proprio come l'opera d'arte che racconta.


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In foto una scena di Final Portrait.
In foto una scena di Final Portrait.
In foto una scena di Final Portrait.

Non tutti i film - pochi - che il cinema contemporaneo dedica agli artisti si sono concentrati sull'incompiuto e sul processo estenuante quanto incontrollabile della creazione. Ognuno è profondamente diverso dall'altro, da un punto di vista insieme estetico e intenzionale. In ognuno il tema artistico è sviluppato secondo linee differenti che, tuttavia, sembrano intersecarsi in un punto: l'ego tormentato (e smisurato) dell'artista che tutto distrugge in nome della costruzione della sua opera. Un personaggio unico, non giudicabile, in grado di reggere se non tutto almeno gran parte del film: deve rendere credibili tratti caratteriali contrastanti, controversi, al limite con il disturbo mentale.

Per questo vengono puntualmente scelti solo attori di spessore, dal premio Oscar Geoffrey Rush che non ha bisogno di presentazioni, al francese Vincent Lindon nei panni di Rodin o Timothy Spall in quelli di Turner. Si tratta di interpreti capaci di portare sullo schermo la grande tavolozza delle emozioni umane: sono capaci prima di immergersi e poi di raccontare tutta l'angoscia di chi si trova a cimentarsi con l'arroganza dell'atto creativo in sé e, al contempo, con l'inarrestabile fluire della vita. Come se non bastasse la vita insieme contemplativa e creativa di uno studio artistico, ecco perché in Final Portrait vediamo Rush mangiare, bere, frequentare bordelli, passeggiare: quell'urgenza di uscire dal suo studio lo racconta più di tutto. Lo faceva anche il Rodin di Lindon, ma il suo uscire era indissolubilmente legato alla sfera sentimentale, conteso com'era tra moglie e amante.

Nel film di Tucci, invece, per quanto ci sia lo stesso dualismo di figure femminile (ma qui, al posto dell'allieva, c'è una prostituta con cui Giacometti intrattiene un rapporto), è l'oggetto del ritratto a diventare oggetto stesso del desiderio. Desiderio erotico puntualmente sublimato che diventa ossessione, pensiero ricorrente, impossibilità del distacco. Così Rush non fa che chiedere a Armie Hammer di restare (in posa, possibilmente), di rinviare continuamente la sua partenza per non essere costretto a concludere l'interminabile, a imprimere la parola 'fine' su un ritratto che è l'unico patto di incontro. "Può andare avanti così per sempre", lamenta a un certo punto l'oggetto del desiderio. Scoprirà presto a sue spese che deadline e scadenze non appartengono al lavoro artistico, non a quello di Giacometti.

La regia di Tucci è garbata e raffinata, incredibilmente attenta a raccontare giorno per giorno l'evolversi di un processo creativo, tormentato, affascinante e costantemente rinviato a data da destinarsi.


RECENSIONE

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