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Alien: Covenant, il rischio di Scott è di perdersi nelle origini

Sebbene caricato di maggiore azione del precedente, sembra chiaro che al regista e agli sceneggiatori interessa più che altro l'aspetto filosofico del problema.
di Roy Menarini

Alien: Covenant

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sabato 13 maggio 2017 - Focus

Quando, ormai quarant'anni fa, Ridley Scott ebbe l'idea di mettere in cantiere il primo Alien (poi uscito nel 1979), gli umori della New Hollywood erano ancora in circolazione. Certo, il sogno - covato da alcuni - di una sorta di regno della fantasia al potere dentro la Mecca del cinema, si era già incrinato. Ma i blockbuster come Lo squalo e film come la saga del Padrino stavano dimostrando che il cinema popolare era in grado di partire dalla lezione autoriale e spingersi in zone molto commerciali senza essere per forza sospettato di loschi compromessi. Anzi, oggi che quel cinema spettacolare a cavallo tra anni Settanta e Ottanta sembra difficile da riproporre (ed ecco perché viene costantemente rievocato) ne abbiamo tutti forte nostalgia.

Alien, infatti, era prima un perfetto meccanismo di gotico applicato alla fantascienza, di raffinatezze art-house e di design contemporaneo esibite dentro un orologio svizzero (come la nazionalità dell'inventore del mostro, H.R. Giger) di tensione e avventura.
Roy Menarini

Poi la saga si è sviluppata e ramificata; il suo interesse sta proprio nell'aver attraversato le varie epoche del cinema americano postmoderno. Dopo la fine degli anni Settanta, è stata la volta degli anni Ottanta catastrofisti di James Cameron, dei Novanta decadentisti di David Fincher, dei Duemila globalizzati euro-statunitensi di Jean-Pierre Jeunet, senza contare la proliferazione di spin off o di imitazioni non troppo riuscite.


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In foto una scena del film Alien: Covenant.
In foto una scena del film Alien: Covenant.
In foto una scena del film Alien: Covenant.

Quando Ridley Scott ha ripreso in mano le redini in cabina di regia, è stato chiaro che avrebbe voluto - e dovuto - stabilire le origini del Mito. Prometheus andava in questa direzione con rivelazioni oscure e potenti, forse sopravvalutando la pazienza degli spettatori, non troppo interessati alle meditazioni cosmiche e ben più speranzosi di rivivere la suspense degli inizi. A questo punta Alien: Covenant, altro tassello di una narrazione in forma di prequel che a quanto pare avrà altri episodi.

Sebbene caricato di maggiore azione del precedente, sembra chiaro che a Scott e agli sceneggiatori interessa più che altro l'aspetto filosofico del problema: in che modo, di mutazione genetica in mutazione genetica, si è giunti alla versione aliena che abbiamo imparato a conoscere sulla nave spaziale Nostromo.
Roy Menarini

Da questo punto di vista gli appassionati saranno soddisfatti delle molte risposte (non tutte) che vengono date ai dubbi preesistenti, con l'importante ruolo attribuito agli androidi, immettendo cioè un terzo tassello in quella che pareva l'infinita lotta tra umani e alieni. Il problema principale dei nuovi episodi, e di Alien: Covenant in particolare, però, è l'assenza di una vera epica. Manca Ripley, in buona sostanza, un personaggio cioè in grado di farci palpitare con lei, di temere per la vita dell'eroe (dell'eroina in questo caso), di sentire la sproporzione delle forze in campo senza però disperare. Complici attori particolarmente anonimi, se si esclude Michael Fassbender, l'identificazione rimane fredda, e il vero protagonista - l'alieno - è troppo spietato per farci simpatia.

I miti funzionano se qualcosa di grandioso e tragico accade all'eroe, mentre il rischio di Prometheus e Alien: Covenant è di perdersi nel racconto della genesi e nella hybris di un essere artificiale.


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