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L'ossessione del posto fisso

Checco Zalone alle prese con una evidente nostalgia per la Prima Repubblica in Quo vado?. Al cinema dal 1° gennaio.
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di Roy Menarini

Checco Zalone (Luca Medici) (46 anni) 3 giugno 1977, Bari (Italia) - Gemelli. Interpreta Checco nel film di Gennaro Nunziante Quo Vado?.

domenica 3 gennaio 2016 - Focus

Se qualche mese fa non fosse uscito il ribaldo e intelligentissimo Italiano medio di Maccio Capatonda, probabilmente Quo vado? ci parrebbe un film migliore. Viste le notevoli differenze in termini di audience quantitativa (almeno per ora), solo una piccola parte degli spettatori di Zalone si sarà accorta che stavolta un nuovo comico, più ruspante, magari più rozzo, ma più lungimirante, era riuscito a raccontare il virus dell'italianità meglio di Checco.
Ci muoviamo, ovviamente, a livello interpretativo. Lasciamo stare Capatonda. Se ci limitiamo al puro funzionamento di genere, Quo vado? fa ridere. Del resto Zalone fa ridere. Fa sempre ridere, possiamo aggiungere. Non c'è un suo film di cui si possa dire che "non funziona". Si può eccepire sul pessimo gusto di Che bella giornata nell'affrontare allegramente attentati, kamikaze e terroristi - tanto che lo stesso Zalone, personaggio lucidissimo, ha ammesso di essersene accorto indipendentemente dal successo ottenuto. Si può dire che la vena surreale di Cado dalle nubi si è un po' annacquata. Si può segnalare che il terzo atto di questo Quo vado? non funziona proprio, sia a livello di gag sia nel forzare la trasformazione dei personaggi (e si potrebbe anche aggiungere che non è possibile, per film di questa portata, avere un missaggio sonoro di tale pochezza).
Ma ben difficilmente, a meno di essere prevenuti, si può affermare che Zalone non fa ridere. Quo vado? conferma la capacità, rara, di questo autore (visto che tale è, a tutti gli effetti) nel riempire di gag tutti i momenti, tutte le sequenze e praticamente ogni passaggio di dialogo e ogni cambio di inquadratura. Se esistesse un densitometro di comicità per minuto di film, Zalone lo farebbe alzare al massimo, e mantenendo una media di qualità tutt'altro che disprezzabile.
I problemi cominciano nel momento in cui si chiede a Zalone qualcosa di più. In Sole a catinelle, Zalone era riuscito a intuire, diremmo quasi a impattare, un'Italia del tutto disorientata, mettendo un personaggio di italiano quintessenziale e al tempo stesso eccentrico a confronto con una società fatta di enclave socioculturali, senza più alcuna rappresentanza ideologica e politica cui fare riferimento. Il risultato era formidabile, confermato dal trionfo di pubblico (che probabilmente si era sentito compreso più che mai nel proprio mix di conservatorismo identitario e individualità creativa), e pronto per gli storici del futuro, che sicuramente - per capirci qualcosa del clima di trasformazione post-seconda Repubblica - dovranno dare un'occhiata a Sole a catinelle.
Sorprende, dunque, trovare Zalone alle prese con una evidente nostalgia per la Prima Repubblica. Non è solo il suo personaggio a essere ossessionato dal posto fisso: lo sembra in verità anche lui. Ha senso oggi una canzone sulla Prima Repubblica come quella, deludente, cantata con accento alla Celentano? Per quanto rispettabile come interpretazione psicologica, l'idea che la sovrastruttura del posto fisso faccia rima legnosamente con la rinuncia a qualsiasi ambizione personale e persino sentimentale, e che il suo abbandono schiuda una maturazione e un rischio salvifico, lascia interdetti. Naturalmente nessuno chiede a Zalone di farsi politologo, ma la questione si pone nel momento stesso in cui egli, da commediante con i fiocchi in grado di esilarare tutti grazie ai paradossi che intuisce in noi italiani, ambisce alla satira epocale. L'abolizione delle province, il renzismo nelle sue ottusità, il progressismo europeista, le trasformazioni della burocrazia e delle sue regole più disumanizzanti sono altrettanti, evidenti bersagli che, forse per la prima volta, denunciano un'ispirazione imperfetta e una mira incerta. Tanto è irresistibile tutta la parte "norvegese" del film, dove vengono sviluppate appieno le potenzialità dell'identità nazionale come richiamo della foresta e della trasformazione coatta dei propri stili di vita collettivi, quanto poi si rivela deludente e sbrigativa l'ultima parte, dove appunto le antinomie del protagonista vengono di fatto scaricate su fattori esterni.
Al solito, Zalone fa leva su un sentimento anti-casta tuttora molto sentito. Non dispiacerà - non è mai dispiaciuto - ai militanti 5 Stelle, ma in fondo la satira contro il perfezionismo civico prende di mezzo anche loro. Piace, come esplicitò Brunetta, a destra, per il furore antisindacale (che sembra, per qualche ragione, un rancore personale di Zalone), ma per lo stesso motivo potrebbe vellicare la sinistra modernista renziana, tuttavia derisa nella figura della sottoministra manageriale e nevrotica. Sicuramente non fa saltare di gioia la sinistra alternativa, che pur contando su percentuali di voto sempre molto basse, poggia su sentimenti diffusi in certo establishment culturale e mediatico: anch'essi, però, non potranno che sghignazzare di fronte all'inestirpabile "leviatano" statale democristiano per come viene messo in scena da Zalone.
Lui si indirizza però al pubblico, ed è lui forse quello che più di tutti fa a meno dei corpi intermedi dell'industria culturale, puntando dritto allo spettatore (pancia o testa, non importa e non è nemmeno interessante), per dirgli come vede questo strano, sussultorio e buffo Paese, e trovando poi grande sintonia di vedute e di autoritratti. In questa relazione affettiva, ricambiata, si cela al momento un fenomeno di massa che non può in alcun modo essere liquidato né ridimensionato. Criticato nello specifico, però, sì.

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