Pablo Larraín riscrive le regole del cinema d'autore a partire dalla realtà storica del suo paese. Al cinema.
di Roy Menarini
C'è qualcosa di sorprendente e straordinario nel modo in cui Pablo Larraín sta riscrivendo le regole del cinema d'autore a partire dalla realtà storica del suo Paese. Dimostrando che una vicenda novecentesca come quella cilena può farsi metro e misura di una vasta serie di temi, conflitti e sentimenti universali (la libertà, la giustizia, il ruolo dell'arte, la crudeltà dei carnefici, la sofferenza del popolo, il concetto di democrazia e così via), Larraín ha saputo - tra i pochi autori degli anni Duemila - rifondare un'idea di cinema politico, nel senso più alto del termine.
Di volta in volta, il regista cileno trova un prisma diverso attraverso il quale osservare una fase storica della sua nazione, e con questo stratagemma raggiungere pubblici molto diversi. Ciò che lo distingue da altri colleghi altrettanto bene intenzionati è la consapevolezza poetica, insieme alle pratiche spiazzanti di messa in scena.
Basti pensare a No - I giorni dell'arcobaleno nel quale, per raccontare una storia di sincera battaglia democratica, Larraín ha utilizzato colori e formati delle videocamere dell'epoca, e così anche in altri suoi film, dove ad essere messi in crisi sono spesso - fin da subito - la modalità di ripresa e i contorni dell'inquadratura, come a costringere lo spettatore a entrare dentro un universo poco accogliente.
Per questo autore, i film sono come sassolini nelle scarpe, restano a dare noia anche dopo la visione, non permettono una chiusura "sferica" del racconto e delle proprie emozioni, mettono in dubbio non solo le verità ufficiali ma anche il consueto modo di raccontare la Storia. Tutto questo raggiunge picchi di straordinaria intensità e originalità con Neruda, dove il finissimo lavoro sul concetto di parola poetica e sui confini della militanza intellettuale, permette a Larraín (in fondo parlando un po' anche di sé stesso) di smarcarsi da ogni codice prestabilito del biopic.
Lo stupore con cui, via via, lo spettatore si rende conto di non assistere a una biografia del grande poeta ma a una formidabile e geniale messa in scena del suo essere poeta civile, risulta impagabile, in anni nei quali questo sottogenere - da sempre esistito ma tutto sommato marginale - sta occupando il centro della produzione di qualità e mietendo Oscar e Premi in tutto il mondo.
A Larraín nulla interessa (come del resto in Jackie) della questione meramente biografica, soprattutto perché essa - pur non volendo - rischia costantemente l'agiografia e si dispone spesso pigramente nei canoni della sceneggiatura standard.
Inventando un antagonista della portata del poliziotto Peluchonneau (che rappresenta il Potere dittatoriale, certo, ma in fondo anche il personaggio di un biopic classico che si trova disperso, furioso e disorientato in un altro film, lontanissimo dalle sue corde), Larraín fa esplodere dall'interno la struttura del genere, amplia la figura di Neruda fino a espanderne pregi e difetti senza soluzione di continuità, e tesse una ragnatela poetica in cui lo spettatore viene catturato infallibilmente.
Quando, nella parte finale del film, l'inseguito e l'inseguitore si trovano nella neve, tra i boschi, in uno scenario da western montano, il livello teorico di Larraín si scioglie in una dimensione estetica pura, universale appunto, di cui lui e pochi altri oggi sono capaci nel cinema contemporaneo.