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Estetica del documentario: Going Clear: Scientology e la prigione della fede

Il cinema in movimento di Roy Menarini.
di Roy Menarini


lunedì 29 giugno 2015 - Approfondimenti

C'è una contraddizione apparente in Going Clear: Scientology e la prigione della fede, il documentario di Alex Gibney sul caso Scientology: è apparentemente poco cinematografico pur parlando tantissimo di cinema. Nel reportage di Gibney (verrebbe voglia di chiamarlo così, pur impacchettato e distribuito in sala dopo il passaggio HBO negli Stati Uniti) si parla di Hubbard e della sua fondazione divenuta credo religioso, ma anche di star importanti del firmamento hollywoodiano. E uno sceneggiatore e regista americano come Paul Haggis è a sua volta parte della narrazione. Il modo che Gibney utilizza per indagare nelle vite private e nelle responsabilità di Tom Cruise e John Travolta potrebbe per certi versi somigliare a una versione deluxe e civilmente impegnata del giornalismo gossip. La ricerca della compagna adatta di Tom Cruise, da affiancargli in pubblico e in privato, raggiunge per esempio vette di straniamento formidabile.

Ma Going Clear: Scientology e la prigione della fede è o non è un film? Curioso porsi ancora queste domande. Eppure il numero di prodotti audiovisivi circolanti nel mercato contemporaneo, realizzati in modo sufficientemente elastico e neutro (quanto a taglia, misura e durata) per poterli facilmente spostare su diverse piattaforme e archivi mediali, fa sì che si faccia fatica a targarli. In buona sostanza è più semplice identificare la loro appartenenza a un genere (il documentario in questo caso) più che a uno statuo artistico o istituzionale definitivo.

Alcuni hanno cercato di fondare un'estetica del documentario, che desse conto delle sue tipologie narrative, delle forme espressive utilizzate, delle ricerche linguistiche eventualmente presenti, e così via. Ma non è possibile decidere a priori se un documentario sia cinema oppure no.
Ugualmente, certi lavori - e Going Clear: Scientology e la prigione della fede rischia di essere uno di questi - appaiono impegnati per lo più nell'indagine (ancorché meritoria, come in questo caso) e nella documentazione, più che nella creazione di un'opera che si presti anche a una valutazione di tipo artistico. È giusto misurare il valore di un film "non fiction" sulla base dei materiali organizzativi e dell'aspetto creativo? O è meglio basarsi sul lavoro compiuto dai ricercatori e valutare la bontà della tesi, dell'ipotesi, della dimostrazione, dei mezzi utilizzati in merito al contenuto?

Ciò vale - s'intende - soprattutto per documentari di denuncia come questo. Diverso sarebbe il discorso se parlassimo di documentari geografici, etnografici, militanti, politici, bellici, o altro ancora. Del resto, che cosa lega un film sulle spedizioni oceanografiche, un audiovisivo sulla vita dei minatori sudafricani, un'indagine cinematografica sulla sanità in Europa, un film di montaggio sulla vita delle donne negli anni Sessanta, un'invettiva satirica contro la guerra americana in Iraq, solo per alludere a titoli realmente distribuiti? Nulla, se non il fatto che si tratta di documentari e che siano stati distribuiti come tali nel mondo. Ecco perché Going Clear Scientology e la prigione della fede torna a interrogarci su come valutare un documentario.

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