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Temi feticcio e musica pop, ecco a voi Sofia Coppola

Tra figure di stile e gusto del dettaglio, la regista non finisce mai e rilancia a Natale con A Very Murray Christmas. In streaming su Netflix.
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di Marzia Gandolfi


domenica 27 dicembre 2015 - Celebrities

Sofia Coppola resiste a qualsiasi tentativo di definizione. Film dopo film noi crediamo di conoscere la 'canzone' (cosa sarebbe il suo cinema senza?) e ogni volta Sofia la canta a suo modo, una maniera limpida, unica. Entomologa della noia agiata di americani indolenti e viziati, Sofia Coppola nel cinema ci cade da piccola. Apparizione infantile e 'accreditata' con lo pseudonimo Domino in Rusty il selvaggio, viene (letteralmente) battezzata davanti alla macchina da presa ne Il Padrino ed è sulla spiaggia di Apocalypse Now che costruisce il suo primo castello di sabbia. Figlia di Francis Ford Coppola, sorella di Roman Coppola e cugina di Nicolas Cage e Jason Schwartzman, recita nei film di papà e trova il suo primo ruolo da adulta in tailleur Chanel ne Il Padrino - Parte III ma la critica ingiusta e impietosa non le perdona la discendenza illustre e lei rinuncia incassando un Razzie Award. Smette di recitare ma non va troppo lontano dalla sua passione, cimentandosi nell'alta moda e nella fotografia accanto a Karl Lagerfeld, assistito due anni a Parigi. Poi a trent'anni gira Il giardino delle vergini suicide ed è subito amore. Amore tra lei e lo spettatore abbagliato dai dettagli pop che fanno lo charme del suo cinema.

Trasposizione del romanzo omonimo di Jeffrey Eugenides, Il giardino delle vergini suicide racconta il suicidio collettivo di cinque sorelle nel fiore degli anni e anticipa uno dei temi cari all'autrice, il passaggio dall'infanzia all'età adulta. Leitmotiv che ritroveremo in Marie Antoinette, che dietro alla facciata storica racconta la storia di un'adolescente austriaca perduta in un mondo adulto e sconosciuto, in Lost in Translation, che trasloca in Giappone una giovane donna che ha appena finito i suoi studi e ancora non sa bene che fare della sua vita trascinata dietro a un marito distratto o ancora in Somewhere, che svolge i pochi anni di Cleo accanto a un padre mai cresciuto perché il cinema della Coppola incontra molti adulti con problemi di 'transizione', su tutti l'imperturbabile Bill Murray di Lost in Translation. Come nessuno cattura la fotogenia dello spleen nei bar degli hotel di lusso o nel Giappone rischiarato al neon, nelle stanze di albergo o nello sguardo dei suoi personaggi sempre separati dal mondo, che sia una famiglia, una corte, una cultura altra. Se qualche volta il suo cinema assomiglia a una grande torta farcita di crema (Marie Antoinette), un'impressione creata dalla profusione di colori pop, di sete, sottane, culotte, crinoline, t-shirt , parrucche rosa e dalla voglia incorreggibile di fare baldoria tra champagne e notti bianche, qualche altra è attraversato da una loneliness, una solitudine meditativa in cui ripiegano i personaggi immobili sul letto e incapaci di continuare.

Autrice di un cinema da camera in cui accomoda uomini e donne, la Coppola li coglie a guardare nel vuoto, con l'aria perduta di chi non trova alcunché di interessante che sospendersi, sottrarsi al tempo e alla corsa folle del mondo. Come Kirsten Dunst 'sopra' a nuvole e unicorni (Il giardino delle vergini suicide), come Stephen Dorff annoiato e triste davanti a un numero di pole dance (Somewhere), come ancora Kirsten Dunst sul prato e in faccia al cielo di Versailles (Marie Antoinette), come Bill Murray in vestaglia e ciabatta in punta di letto (Lost in Translation) o in piedi smarrito davanti a New York (A Very Murray Christmas). Un fil rouge ossessivo infila tutti i suoi film al di là dell'ambientazione sociale, storica, geografica in cui si iscrivono. Il contesto è un pretesto, a contare è la situazione, sempre la stessa, un personaggio senza territorio, dislocato dagli affetti o dal proprio paese e precipitato dal cielo, creatura venuta da un altrove che non riconosce niente come suo e si consuma in un sentimento di estraneità dal mondo. A sottrarli alla loro bolla di melanconia ci pensa sempre la musica. Sacerdotessa della simbiosi suono-immagine, la regista sembra pensare ciascun piano, ciascuna sequenza, ciascun movimento di macchina in funzione di una soundtrack e di uno spirito educato su MTV. Così Sofia affida agli Air la musica de Il giardino delle vergini suicide, fa correre Marie Antoinette lungo i corridoi di Versailles sulle note degli Strokes, incontra Tokyo con Kevin Shields, recupera i The Beach Boys con Bill Murray e i Phoenix.

Talent scout di giovani attrici misconosciute, di preferenza bionde, giovani e carine, scopre Kirsten Dunst, Scarlett Johansson, Elle Fanning. Unica eccezione, perché rivelata dalla saga di Harry Potter, Emma Watson a cui affida la stagione che la ossessiona questa volta tuttavia tentata dall'orrore (Bling Ring). Colpita dal materialismo della giovinezza americana, la Coppola realizza Bling Ring e mette in scena il ritratto vorace di una generazione che nutre un desiderio esagerato per un paio di scarpe e un sentimento malsano per le star. Decisamente assennata, la sua relazione con Hollywood matura in un'infanzia affollata da celebrità e dentro una famiglia celebre che declina in ognuno dei suoi film: vincolo soffocante (Il giardino delle vergini suicide), separazione (Lost in Translation), doveri familiari (Marie Antoinette), relazione padre-figlia (Somewhere).

Temi feticcio, figure di stile, musica pop, gusto del dettaglio dietro l'anacronismo (il paio di Converse lavanda tra le scarpe settecentesche di Marie Antoinette), Sofia Coppola non finisce mai e rilancia su Netflix per cui realizza A Very Murray Christmas, un omaggio sincero agli show televisivi di Bing Crosby o dei Carpenters che hanno cullato la sua fanciullezza con le loro voci calde, l'orchestra vestita di bianco e un firmamento di guest star. Un'infanzia segnata da un insondabile struggimento che non l'ha mai abbandonata e che ha trovato dimora in tutti i suoi soggetti. Un pensiero persistente che infonde al suo cinema tutta la sua poesia, che si scrive sulla pagina la prima volta a sedici anni e che è suo padre a mettere in scena per lei nel film collettivo New York Stories (episodio, La vita senza Zoe).

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