The Look of Silence e l'atto del ricordare.
di Roy Menarini
Una domanda è sorta spontanea durante la Mostra del Cinema di Venezia: ma i giurati lo avevano visto The Act of Killing? Alcuni no, altri sì, probabilmente. E i primi come avrebbero fatto a giudicare il nuovo film di Joshua Oppenheimer senza l'integrazione del capolavoro precedente? Poi, via via che i giorni passavano, ci si è resi conto che il continuo confronto con The Act of Killing finiva con l'essere fuorviante e che i più severi critici di questo lavoro erano proprio i sostenitori del primo film.
D'altra parte, la stessa cosa accadrà in sala in questi giorni. Anzi, è probabile che saranno più numerosi gli spettatori ancora "vergini" rispetto ai "connoisseur". Giusto così. E giusto parlare di The Look of Silence come opera a se stante, almeno ora che circola in prima visione. Ci sarà tempo, in seguito, per considerarla un'opera unica in due parti, unificata o semplicemente complementare.
Quel che colpisce del film, e quel che deve aver colpito nel profondo anche la giuria (o almeno Tim Roth, tanto da spingerlo a una rottura della liturgia che ha destato poca sorpresa solo perché avvenuta all'interno di una cerimonia di premiazione ancora una volta caotica e deludente) è la fiducia nel mezzo cinematografico come strumento capace di incidere nel presente. Da quanto tempo non accadeva che un documentario scoperchiasse una vicenda incredibilmente dimenticata, un eccidio spazzato sotto il tappeto della storia, e riaprisse un dibattito pubblico in una nazione (l'Indonesia) e in un intero continente? Da quanto tempo un regista, non pago di aver immaginato con The Act of Killing il più traumatico ruolo della finzione che la storia recente del documentario ricordi, non metteva se stesso in pericolo pur di proseguire una ricerca umana fino al limite del dicibile? E - aggiungiamo - da quanto tempo noi spettatori non ci trovavamo di fronte a un documentario sospesi sull'orlo della poltrona, con le mani sudate, oscillando tra l'orrore e la compassione di fronte a carnefici e vittime?
The Look of Silence, che a voler essere pignoli qualche difetto pure ce l'ha (l'insistenza sulla metafora del vedere, l'inspiegabile, crudele ripresa del povero vecchio che si è perso in casa sua e piange senza che nessuno lo aiuti), ha il merito di interrogare con una sfrontatezza leonina, con un coraggio invidiabile, la storicizzazione degli orrori. Ovvero come, in un Paese che oggi esporta imprenditori di grido, a scuola si insegni ancora l'eroismo di una strage di innocenti, o nei quartieri comandino (e comunque vengano venerati e temuti) i "nonni" che esultano tuttora per aver sezionato corpi, sgozzato inermi, bevuto - letteralmente - il sangue delle proprie vittime.
La sequenza-madre, già notata dai commentatori di tutto il mondo, è l'incontro del nostro protagonista (fratello di una vittima mai conosciuta in vita e nostro Virgilio in questo Inferno novecentesco), con la figlia di un assassino. È di fronte alla macchina da presa che, dalla viva voce del vecchio, la ragazza apprende gli orrori commessi dal padre. Prima sorride inebetita, poi appare sconvolta, infine ammette la sua ignoranza e in un attimo comprende che cosa devono aver sofferto il giovane uomo di fronte a lei e la sua famiglia. Chiede riconciliazione e si offre di diventarne sorella, mette a disposizione casa sua e persino quel che rimane del vecchio carnefice. Chissà se lui e lei, nuove generazioni, si saranno rivisti ancora o si rivedranno in futuro.
A noi per il momento basta la sequenza mélo più vera e imprevista che il cinema ci abbia regalato in questi anni.