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Minimalismo americano

Teneramente folle e il cinema esperienziale.
di Roy Menarini

In foto una scena del film.
Mark Ruffalo (56 anni) 22 novembre 1967, Kenosha (Wisconsin - USA) - Scorpione. Interpreta Cameron nel film di Maya Forbes Teneramente folle.

domenica 21 giugno 2015 - Approfondimenti

A scorrere le reazioni critiche suscitate da Teneramente folle ci si imbatte per lo più in descrizioni generiche. Il cinema indie americano, del resto, viene interpretato in maniera univoca come produzione di contenuti, di personaggi e di storie più o meno riuscite. I critici pensano in buona sostanza che ci si trovi di fronte a una qualche "mancanza" di regia, a causa di un'enfasi mal riposta sulla sceneggiatura.

Sono i danni ancora oggi provocati dal primato della "mise-en-scène" che, se ci aiuta tuttora a difendere prodotti spesso sottovalutati in quanto poco nobili narrativamente, diviene poi categoria perniciosa quando osserviamo una certa tipologia di cinema. Almeno dagli anni Novanta in poi, il cinema americano di area Sundance e di produzione minore ha privilegiato una corrente letteraria molto conosciuta, il minimalismo, e dialogato con una serie di scrittori/faro - alcuni eredi di Raymond Carver, altri della postmodernità letteraria statunitense - per costruire le proprie storie, imperniate per lo più sulla famiglia, la coppia, la solitudine dell'individuo, il rapporto padri/figli e madri/figli, e tutte le varianti disfunzionali immaginabili all'interno del nucleo parentale.

Teneramente folle è solo il più recente esempio (tra quelli giunti in Italia, s'intende) di questo piccolo ma affollato genere autoriale, e non sfigura affatto di fronte ad altri prodotti simili. Il re del filone si è ormai affermato nella persona di Noah Baumbach (si veda anche l'ottimo e metacinematografico Giovani si diventa), ma la schiera dei pretendenti è altissima. Maya Forbes, a sua volta, imbastisce un racconto tenero e tutt'altro che superficiale, servito - questo è vero - da attori in stato di grazie, soprattutto Zoe Saldana, davvero sorprendente e capace di molteplici sfumature.

Tuttavia, il minimalismo è una scelta stilistica come un'altra. Può essere finanche estremizzata - il cosiddetto "mumblecore" o le sceneggiature di Greta Gerwig - oppure declinata in termini di commedia, come in questo caso. La Hollywood degli anni Settanta resta sempre dietro l'angolo, ma non serve nobilitare alcunché, visto che il genere (lo chiamiamo così per la sua riconoscibilità) ha dignità come tutti gli altri e anzi dimostra una inaspettata vitalità e resistenza alle mode passeggere.

Tra le operazioni stilistiche che, anche in Teneramente folle, sovraintendono al lavoro creativo, ci sono tra gli altri: una forte connotazione urbana e paesaggistica, un'attenzione particolare al rapporto tra corpi attoriali e spazi domestici, una preminenza di dialoghi e di linguaggi aderenti al lessico e alle modalità espressive del contemporaneo, un'attenzione particolare alle tensioni etniche e sessuali indagate localmente e nel microcosmo, una ricerca di materiali iconografici (dall'abbigliamento al design, dalla scenografia agli accessori) in grado di aumentare il grado di autenticità percepita, una attenta gradazione di elementi emotivi e caratteriali pronti a intensificarsi in senso umoristico o drammatico a seconda dei momenti, una recitazione di tipo naturalistico, riprese con camera ravvicinata e discreta per favorire l'assorbimento sentimentale nei personaggi.

Non c'è un "meno", ma un "minimal". Non si rinuncia a qualcosa, si sceglie semplicemente un'altra strada. E alla fine, anche Teneramente folle, pretende il suo tassello nell'Americanologia a latere che il cinema indie statunitense sta costruendo da anni.

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