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flyanto
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venerdì 6 marzo 2015
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un mirabile affresco degli anni '70
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Film in cui si racconta di un piuttosto scalcinato detective, dedito a bere ed a fumare droghe di ogni tipo, al quale viene affidato il compito da una sua ex fidanzata, ora amante di un anziano e ricco magnate dell'edilizia, di scoprire un piano ordito ai danni di quest'ultimo. Vi riuscirà dopo innumerevoli avventure e dopo essere entrato nel frattempo in contatto con svariati e strani personaggi..... [+]
Film in cui si racconta di un piuttosto scalcinato detective, dedito a bere ed a fumare droghe di ogni tipo, al quale viene affidato il compito da una sua ex fidanzata, ora amante di un anziano e ricco magnate dell'edilizia, di scoprire un piano ordito ai danni di quest'ultimo. Vi riuscirà dopo innumerevoli avventure e dopo essere entrato nel frattempo in contatto con svariati e strani personaggi.....
Quest'ultima opera di Paul Thomas Anderson risulta in pratica un quanto mai preciso affresco dei passati anni '70: infatti la vicenda si svolge a Los Angeles nel corso del suddetto decennio ed il regista presenta in una maniera quanto mai dettagliata, efficace e mirabile quest' epoca e la comunità di più o meno giovani hippies che la vivevano, riproponendola in tutte le sue manifestazioni e, cioè, dallo stile di vita alternativo delle persone, ai loro abiti molto colorati e ricamati adorni di perline e grandi cappelli in testa ed occhiali da sole, agli ambienti interni ed esterni arredati secondo il gusto e la moda dell' epoca sino ad una nutrita e nostalgica compilation di brani di quel periodo, divenuti ormai intramontabili. La pellicola in realtà, per ciò che riguarda la trama, è molto confusa e pasticciata: lo spettatore stenta a seguirla perchè poco lineare ed intrisa di troppi avvenimenti, difficili, appunto, da seguire uno ad uno per una vicenda, od il suo pretesto, di base, molto semplice. Ma quello che, penso, Anderson si sia prefissato non sia stato tanto il costruire una storia di facile approccio e con un susseguirsi di fatti che in maniera consequenziale e diretta pian piano conducano alla risoluzione del caso di partenza, bensì un pretesto per presentare al pubblico un mondo che ormai non esiste più, quale appunto quello degli anni '70, caratterizzato principalmente da valori e credenze ormai superate e nella maggioranza dei casi persino sbagliate o, per lo meno, altamente utopistiche, insomma uno specchio di tutta una generazione di individui poi profondamente sconfitti nei loro sogni e desideri irrealizzabili, ma proprio per questa atmosfera nostalgica il film risulta valido e dotato di un certo valore.
Il nutrito cast degli attori, poi, che è impiegato nel film risulta un ulteriore elemento a favore della pellicola consegnando al pubblico una molteplicità di ritratti di persone quanto mai singolari ed originali: su tutti, ovviamente, spicca il personaggio principale del detective impersonato da Joaquin Phoenix, molto bravo e soprattutto convincente, seguito dal poliziotto e suo amico-nemico James Brolin, sino ad un indefinibile Benicio del Toro e ad uno quanto mai stralunato nonchè tossico Owen Wilson, per citare solo alcuni tra i principali.
Insomma, un film interessante nel suo complesso, parecchio nostalgico e da seguire senza alcuna pretesa di capirne il caos della trama.
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parker368
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giovedì 5 marzo 2015
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lungo e inconcludente
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All'inizio pensi, ecco il film della settimana. Poi i nomi iniziano a moltiplicarsi, il pubblico inizia a voltarsi per capire se è normale non afferrare l'intreccio nel viaggio tra droghe e capelli conciati allegramente.
La trama svolta continuamente senza approfondire niente. Cresce l'erba e la voglia che finisca prima possibile.
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storie di cinema
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giovedì 5 marzo 2015
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vizio più di sostanza che di forma
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Paul Thomas Anderson è una mente precoce che ha plasmato il suo carattere di regista guardandosi bene dalle cose semplici. E lo ha fatto perlopiù affrontando con occhio clinico la profondità umana di personaggi complessi e gli intrecci, rocamboleschi e fatali, degli stessi. Boogie night, Magnolia e il Petroliere - il suo capolavoro - sono ti[+]
Paul Thomas Anderson è una mente precoce che ha plasmato il suo carattere di regista guardandosi bene dalle cose semplici. E lo ha fatto perlopiù affrontando con occhio clinico la profondità umana di personaggi complessi e gli intrecci, rocamboleschi e fatali, degli stessi. Boogie night, Magnolia e il Petroliere - il suo capolavoro - sono titoli importanti che hanno lasciato un segno nel cinema di almeno un decennio. Ed proprio sulla scia di questo corposo bagaglio che il regista americano ha intrapreso la via del noir, portando al cinema col medesimo titolo il romanzo di Thomas Pynchon Vizio di forma – titolo originale Inherent vice. Ecco quindi un eccentrico investigatore privato hippie (Joaquin Phoenix) alle prese con loschi affari e intrecci riguardanti sette ariane, un poliziotto ossessivo che lo perseguita, amanti, rapimenti, ricchi immobiliaristi, una famiglia di tossici, l'ex fidanzata, traffici di droga, federali e via dicendo. È senz’altro un noir atipico, ibrido, che, tuttavia, raccoglie molti caratteri del genere e che Anderson, da ottimo compositore, ha saputo magistralmente assemblare rendendolo accattivante nel suo insieme e superbo nelle atmosfere. Vizio di forma ha la stoffa giusta per suscitare reminiscenze e fascinazioni importanti, tipiche di quel manierismo cinematografico che spesso ci ha regalato belle opere ripercorrendo e rivisitando le gloriose vicende di certi filoni intramontabili del cinema. La Los Angeles calda e ambigua di Chinatown, personaggi degni del miglior grottesco targato Coen, qualche affinità con la perfezione de Il grande sonno – anche se un complesso filmico che parte da Chandler, scritto da Faulkner, girato da Hawks e interpretato da Bogart mette una certa soggezione solo a nominarlo – e le suggestioni de Il lungo addio. Esplicitamente altmaniana è anche la regia, fatta di lunghe sequenze, fitti dialoghi e una cinepresa che senza stacchi si avvicina lentamente ai protagonisti quasi volesse soffocarli nello specchio del suo campo. Ma all'interno di questa virtuosa cornice d'autore si racchiude un qualcosa di magmatico, di confuso, a tratti insensato. Una specie di carattere fugace, ingordo di situazioni, cose, persone, in grado di toccare numerosi punti tematici senza assorbirne l'essenza, spinto da quel formalismo invadente capace di prendere il sopravvento sulla scrittura e sulla effettiva forza trascinatrice della storia. Siamo a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, quindi i movimenti hippie, Nixon, Charles Manson, la libertà sessuale, l'umorismo grossolano e l'abuso di droghe rappresentano chiari elementi generazionali di elevato potere simbolico che Anderson, proprio nel momento in cui la relazione tra persone ed eventi richiederebbe un filo conduttore quantomeno deducibile, disperde con eccesso di fretta tra le pretese fin troppo compiaciute della sua inebriante arte di cineasta. Il risultato è una trama complicatissima che, dopo un eccellente inizio, non tarda a rivelare una scorrimento faticoso, labirintico, che per oltre due ore continua ad accumulare situazioni appesantendo oltremodo la parte narrativa principale. Ne fanno le spese sia l'aspetto meramente espositivo legato agli eventi, sia quel parlare oltre il film che vorrebbe raccontarci il crepuscolo di un’epoca incerta, paranoica e allucinata. Lascia più di un dubbio Vizio di forma. Anderson ha fatto un grande lavoro dietro la macchina da presa; i suoi personaggi sono belli, si muovono bene, dialogano magnificamente sotto il riflesso accecante del sole californiano o sotto la vivida luce blu di qualche neon. Ma spingersi oltre la meraviglia delle singole parti risulta un’operazione ardua e, al netto di una volontà forse incompresa, abbastanza inutile. Se con Vizio di forma Paul Thomas Anderson voleva dimostrare di saper costruire in grande stile un noir moderno, si può tranquillamente accreditargli tutto il merito di questo buon risultato. Ma se nel suo intento c’e stata la volontà di reinventare le basi e il concetto di un genere alla maniera di Roman Polanski – obiettivo tutt'altro che sproporzionato per un talento come quello di Anderson -, beh, allora i conti non tornano fino in fondo.
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jaylee
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martedì 3 marzo 2015
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un thriller tanto fumo (e poco arrosto)
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Paul Thomas Anderson, regista semi-mitologico di Boogie Nights, Magnolia e Il Petroliere porta sullo schermo Thomas Pynchon, scrittore complesso come pochi nel panorama letterario USA, con un romanzo di qualche anno fa, ambientato nei lisergico 1970. Il detective hippie Larry “Doc” Sportello viene incaricato dalla sua ex, di ritrovare la sua nuova fiamma, il ricco magnate immobiliare Wolfman. Rimane invischiato in una storia di poliziotti reazionari, cartelli della droga integrati come corporazioni, servizi segreti, sette orientali, movimenti hippie, fratellanze arianei e chi più ne ha più ne metta…
In effetti il film di Anderson si presenta, in pieno stile 70s come un viaggio psichedelico lungo 2h30’, oscillando tra la farsa e il thriller.
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Paul Thomas Anderson, regista semi-mitologico di Boogie Nights, Magnolia e Il Petroliere porta sullo schermo Thomas Pynchon, scrittore complesso come pochi nel panorama letterario USA, con un romanzo di qualche anno fa, ambientato nei lisergico 1970. Il detective hippie Larry “Doc” Sportello viene incaricato dalla sua ex, di ritrovare la sua nuova fiamma, il ricco magnate immobiliare Wolfman. Rimane invischiato in una storia di poliziotti reazionari, cartelli della droga integrati come corporazioni, servizi segreti, sette orientali, movimenti hippie, fratellanze arianei e chi più ne ha più ne metta…
In effetti il film di Anderson si presenta, in pieno stile 70s come un viaggio psichedelico lungo 2h30’, oscillando tra la farsa e il thriller. Lo spettatore è subito assalito da un senso di paranoia e allucinazione come se fosse sotto effetto delle stesse sostanze di cui il buon Doc usa ed abusa. La storia non segue un percorso lineare, ad esser sinceri non sembra neanche seguire un qualunque sviluppo, quasi che la trama fosse un optional.
Che dire di Vizio Di Forma? La confezione è spettacolare, bellissimi i colori saturi e le ambientazioni stile Hair, con alcune scene spassosissime, tipo la visita al bordello o la festa con tanto di Ultima Cena hippie. Il cast è stellare, con un Joaquin Phoenix un John Lennon strafatto improbabile investigatore privato dalla scarsa igiene, e tutta una serie di comprimari che vanno dal poliziotto reazionario e cripto-omosessuale Josh Brolin, al saxofonista surfista Owen Wilson, al dentista cocainomane Martin Short, e poi Eric Roberts, Benicio Del Toro, Reese Witherspoon. Musiche d’epoca e di grande livello.
Detto questo… inizia il resto del film. Anche a prenderlo così come è, un trip psichedelico, Vizio di Forma appare a volte divertente, spesso pretenzioso, e alla fine confuso e luuungo. Se dovessimo rifarci a film simili, ad esempio Paura e Delirio a Las Vegas, oppure Il Grande Lebowski, l’opera di Anderson, pur essendo interessante l’idea del thriller paranoico e lisergico, appare incoerente sia per narrazione, che oscilla tra la parodia e il serio, sia per intento, con realtà e allucinazione che si intrecciano senza soluzione di continuità, così come i personaggi che entrano ed escono di scena, senza veramente un motivo. A volte si ha la sensazione che quello che è sullo schermo sia il frutto dell’immaginazione di Doc, ma a differenza di Paura e Delirio o Il Grande Lebowski, rimane una sensazione, mai risolta fino alla fine e, In generale manca proprio il senso di leggerezza che caratterizza gli altri due. Fin troppe sottotrame rimangono incomprensibili e dispersive. La fine arriva neanche un minuto troppo tardi.
Dopo il mezzo passo falso di The Master, Paul Thomas Anderson appare in piena involuzione: persa la bellissima e armoniosa coralità dei suoi primi lavori, (e privo di una star magnetica come lo sono Daniel Day Lewis o Philip Seymour Hoffman), questo lavoro è ambizioso, ma le singole scene, per quanto ben fatte, e qualcuna persino quasi-iconica, non bastano a salvare il tutto. Tanto “fumo” (in ogni senso), poco arrosto. (www.versionekowalski.it)
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killbillvol2
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martedì 3 marzo 2015
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il vizio intrinseco di vizio di forma
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"Will your restless heart come back to mine On a journey through the past." canta Neil Young per ben due volte nella pellicola di Anderson. E anche: "Will I still be in your eyes and on your mind?" Domande che rispondono alle molteplici che compaiono nella mente dello spettatore frastornato dopo le due ore e mezza piene di indagini, colpi di scena improbabili, latte materno drogato, detective fascisti, Fratellanza Ariana, spinelli, eroina, dentisti spacciatori e evasori fiscali, culti capitanati da brutti ceffi con svastica in fronte (ma è un antico simbolo indu che significa "va tutto bene"), mazze da baseball, mariti resuscitati, ricordi scordati di un passato ancora più remoto di quello raccontato, ultime cene Da Vinciane con pizze al posto dei canonici vino e pane, ma, soprattutto, la fine di un'epoca mai del tutto iniziata.
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"Will your restless heart come back to mine On a journey through the past." canta Neil Young per ben due volte nella pellicola di Anderson. E anche: "Will I still be in your eyes and on your mind?" Domande che rispondono alle molteplici che compaiono nella mente dello spettatore frastornato dopo le due ore e mezza piene di indagini, colpi di scena improbabili, latte materno drogato, detective fascisti, Fratellanza Ariana, spinelli, eroina, dentisti spacciatori e evasori fiscali, culti capitanati da brutti ceffi con svastica in fronte (ma è un antico simbolo indu che significa "va tutto bene"), mazze da baseball, mariti resuscitati, ricordi scordati di un passato ancora più remoto di quello raccontato, ultime cene Da Vinciane con pizze al posto dei canonici vino e pane, ma, soprattutto, la fine di un'epoca mai del tutto iniziata. E' di questo che parla Vizio di Forma: non si è più liberi di farsi uno spinello in casa, magari sotto suggerimento di una tavola Ouija, di avere il proprio orticello, perché la cocaina, l'eroina, le droghe dei ricchi stanno prendendo il sopravvento, come una Zanna d'Oro che si erge imponente in mezzo alla città. Come una nave che scruta la riva, ma che mai attracca, il nostro eroe Doc Sportello si muove a tentoni in mezzo a nomi, fatti, eventi sconnessi e scollegati tra loro e neanche lui sa come il mistero si sia risolto e, soprattutto, se quel mistero sia mai accaduto. In preda ad un continuo trip, la realtà si mescola con la finzione tanto da eliminare svolte decisive per le indagini, come noi spettatori.
Anderson filma con nostalgia un periodo storico già nostalgico e già fuori posto e fuori tempo massimo, rappresentato dal paranoico fattone e più in forma che mai Joaquin Phoenix, ultimo dei romantici, drogato dall'illusione dei tempi, innamorato del passato che si manifesta sotto le mentite spoglie di Shasta, sua ex fidanzata. Un angelo. Come Sortilège, figura di per sé insignificante, innalzata a narratrice onnisciente, sarcastica, malinconica e ironica. Come il film, derivato ma mai derivativo, figlio dei noir anni 40 (Il Grande Sonno sopra tutti, dal quale, come Il Grande Lebowski prima di lui, prende la trama incomprensibile) e di Altman (Il Lungo Addio e la già citata Ultima Cena), come i precedenti film di un regista che, su materia già vista come questa, riesce a diffondere e infondere una linfa vitale, ma, soprattutto, personale. E' così che ci troviamo davanti a lunghi piani sequenza mai invadenti (impara, Cuaròn) e quasi invisibili (il dialogo tra l'ottima Waterston e Phoenix è pazzesco ed esemplare), personaggi ripresi solamente dalla vita in giù, campi lunghissimi, e la pellicola volutamente "scaduta" e perciò rarefatta circonda ogni personaggio o situazione di un alone tragico, ma grottesco, divertente, ma disilluso. Certo, da metà in poi smette di essere confuso e diventa confusionario, perde leggermente in ritmo e in verve, si sfilaccia narrativamente. Diventa ridondante, ripetitivo, meno appassionante e coinvolgente, vittima del suo "vizio intrinseco". Ma è un noir, e più dell'intreccio contano i personaggi, e più dei personaggi conta l'atmosfera. E quella c'è tutta e ci riesce a far respirare il fumo di Sportello, a farcelo inalare e a farci "sballare", accavallando eventi, situazioni, strani e loschi figuri, riuscendo a farci ridere di una bambina distrutta dal latte infettato di eroina. Pochi registi sono ancora in grado di farci davvero vivere le loro pellicole.
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catcarlo
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martedì 3 marzo 2015
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vizio di forma
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Lasciate ogni logica, voi ch’intrate. Sommando la tendenza a non raccontare proprio tutto tipica del regista con il procedere labirintico dei romanzi di Thomas Pynchon (seppure quello alla base del film sia il più ‘lineare’ tra mille virgolette) c’era da aver paura di perdersi in questa pellicola oltretutto ascrivibile a un genere che adora i doppifondi come il noir. Invece Anderson ha in qualche modo riscritto il libro, ottenendone comunque l’imprimatur dall’autore: ha così fatto davvero sua la storia che, pur restando fondamentalmente pynchoniana, finisce per discostarsi dalla banale illustrazione dell’originale. Per farlo, è stato necessario sfrondare parecchio, anche perché altrimenti ci sarebbero volute dieci ore invece delle comunque corpose due e mezza: a farne le spese soprattutto la scena musicale – lo scoppiatissimo gruppo surf dall’assai instabile formazione e l’esilarante band inglese in visita – la deviazione a Las Vegas e alcuni passaggi più surreali, come la chiacchierata del protagonista con un’effigie di Thomas Jefferson.
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Lasciate ogni logica, voi ch’intrate. Sommando la tendenza a non raccontare proprio tutto tipica del regista con il procedere labirintico dei romanzi di Thomas Pynchon (seppure quello alla base del film sia il più ‘lineare’ tra mille virgolette) c’era da aver paura di perdersi in questa pellicola oltretutto ascrivibile a un genere che adora i doppifondi come il noir. Invece Anderson ha in qualche modo riscritto il libro, ottenendone comunque l’imprimatur dall’autore: ha così fatto davvero sua la storia che, pur restando fondamentalmente pynchoniana, finisce per discostarsi dalla banale illustrazione dell’originale. Per farlo, è stato necessario sfrondare parecchio, anche perché altrimenti ci sarebbero volute dieci ore invece delle comunque corpose due e mezza: a farne le spese soprattutto la scena musicale – lo scoppiatissimo gruppo surf dall’assai instabile formazione e l’esilarante band inglese in visita – la deviazione a Las Vegas e alcuni passaggi più surreali, come la chiacchierata del protagonista con un’effigie di Thomas Jefferson. Inoltre, l’atmosfera d’insieme risulta meno paranoica di quella creata da Pynchon, che ha nella paranoia una sorta di un marchio di fabbrica, ma sull’altro piatto della bilancia il regista getta la scelta di inserire le parole dello scrittore attraverso la maggiore importanza attribuita al ruolo di Sortilége (Joanna Newsom) che diventa qui quasi una cantastorie delle vicende di Doc Sportello. Interpretato da uno strepitoso Joaquin Phoenix in una nuova prova camaleontica, il detective privato si muove su input di una sua ex fiamma che teme per il destino del proprio attuale, ricco amante. Come un sasso in uno stagno, l’indagine che parte da una poco eccitante questione di corna inizia ad allargarsi tra speculazione edilizia, traffico di droga e una holding criminale che, ricordando vagamente la Spectre, sembra allungare i suoi tentacoli ovunque: tra colpi di fortuna e abilità investigativa, Doc trova in qualche modo il bandolo, dimostrando come, malgrado il suo essere sballato per gran parte del tempo, la sua etica sia presa di preso da quella di Marlowe e a spingerlo sia l’amore mai sopito per Shasta Fay (un incantevole Katherine Waterston). Per arrivare alla conclusione, Sportello deve affrontare una serie di situazioni e personaggi ai limiti della follia o anche un bel po’ oltre grazie alle quantità industriali di droga che vengono assunte ed è del tutto impossibile cercare di farne un elenco completo: Doc ha come amante una vice-procuratore (Reese Witherspoon) ed è perseguitato da un cazzuto poliziotto wasp che però è anche una sorta di suo alter-ego (Josh Brolin), ma gli capita pure di andare a sbattere in un dentista cocainomane e pedofilo come il sovraeccitato dottor Blatnoyd di Martin Short. Del resto, la Spectre di cui sopra si chiama Zanna d’Oro (Golden Fang), che è anche il nome di una nave che trasporta droga su cui forse ha viaggiato Shasta probabilmente come conseguenza del suo rapporto con il palazzinaro Wolfman (Eric Roberts) che però finisce in una clinica per disintossicarsi gestita dalla Zanna stessa: solo un piccolo esempio degli incastri della vicenda, ma anche il modo per accennare finalmente a una parte visiva, fotografata da Robert Elswit, che è del tutto all’altezza. Sulla facciata della clinica, infatti,il motto ‘Straight is hip’ richiama nella forma il cancello di Auschwitz: una delle tante invenzioni disseminate qua e là, come la visita nell’allucinato deserto in cui dovrebbero sorgere i Channel View estates di Wolfman o le scene nebbiose quando i personaggi sono annebbiati dentro oppure ancora la surreale consegna di una partita di droga in un parcheggio deserto. L’estetica da inizio anni Settanta è particolarmente efficace, tra macchinoni, colori netti e (ovviamente) tubi al neon che contrastano con gli ambienti più indefiniti e orientaleggianti della comunità hippie, di cui Sportello resta uno degli ultimi, orgogliosi rappresentanti: il film è difatti (anche) questo, come del resto il romanzo, e cioè l’elegia di un’epoca al tramonto, minacciata dal diffondersi dell’eroina e dalla normalizzazione reaganiana. In fondo, in una Los Angeles strozzata da smog e cemento, i vecchi poteri dimostrano ancora di essere i più forti dietro gli occhi di ghiaccio dell’avvocato Fenway (Martin Donovan) e la vittoria di Doc è chandlerianamente amara e momentanea come breve è stato il movimento hippie, la cui dimensione sognante riappare all’improvviso nella scena di Sportello e Shasta sotto la pioggia accompagnata da ‘Harvest’ di Neil Young. La colonna sonora è, del resto, altrettanto importante, con una serie di pezzi scelti con cura (mentre la partitura originale è di Jonny Greenwood) anche se in gran parte eseguiti da artisti poco conosciuti: da citare almeno è però l’utilizzo di ‘Vitamin C’ (sui titoli di testa) e ‘Soup’ dei Can. Sommando tutti questi ingredienti, Anderson vince la sfida di filmare uno scrittore di norma ritenuto infilmabile con un’opera che non è un capolavoro assoluto – e forse nemmeno personale essendo, ad esempio, ‘The master’ più emozionante – ma ha comunque grandissime qualità, compresa, a dispetto di molti fattori, quella di intrattenere.
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brian77
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martedì 3 marzo 2015
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mortale
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Vorrei solo osservare come Joaquin Phoenix sia attore sempre eccellente nei film di James Gray, mentre è sempre pessimo con Paul Thomas Anderson: dopo l'orrenda interpretazione di "The Master", eccone un'altra maldestramente sopra le righe, goffa e stucchevole.
Per il resto, boh, ho sempre trovato stucchevoli gli autocompiacimenti di questo regista, che finora ha fatto un solo film discreto, "Il petroliere". Cerca spettatori che si divertono a decrittare i suoi onanismi perché così si sentono parte di un'élite, ma sono veramente stanco dei suoi tic e delle sue strizzate d'occhio chiuse entro un orizzonte soffocante. Ostenta la scissione tra dialoghi verbosissimi inascoltabili e immagini leziose che vanno per conto proprio: la lunghezza esasperata, insostenibile e assolutamente immotivata credo abbia un'unica spiegazione nella volontà di irridere lo spettatore.
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Vorrei solo osservare come Joaquin Phoenix sia attore sempre eccellente nei film di James Gray, mentre è sempre pessimo con Paul Thomas Anderson: dopo l'orrenda interpretazione di "The Master", eccone un'altra maldestramente sopra le righe, goffa e stucchevole.
Per il resto, boh, ho sempre trovato stucchevoli gli autocompiacimenti di questo regista, che finora ha fatto un solo film discreto, "Il petroliere". Cerca spettatori che si divertono a decrittare i suoi onanismi perché così si sentono parte di un'élite, ma sono veramente stanco dei suoi tic e delle sue strizzate d'occhio chiuse entro un orizzonte soffocante. Ostenta la scissione tra dialoghi verbosissimi inascoltabili e immagini leziose che vanno per conto proprio: la lunghezza esasperata, insostenibile e assolutamente immotivata credo abbia un'unica spiegazione nella volontà di irridere lo spettatore...
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adelio
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lunedì 2 marzo 2015
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quando le parole diventano lessico dell'immagine
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Spesso il cinema si limita ad essere la mera illustrazione di una storia (tratta da un romanzo) e "Vizio di Forma" fortunatamente non lo è.
In realtà Anderson usa una sceneggiatura ma al solo fine di distruggerla, sembra optare decisamente per le riprese, abbandonando l'origine letteraria della storia. Le parole sono parole, non immagini...la loro scelta lessicale non è casuale.. il testo deve servire x essere "distrutto" e guadagnare "libertà".
Oh si..la stessa libertà che si respirava tra gli anni'60 e'70 in un'America semplice, sicura, certa del proprio ruolo nel mondo e dell'obiettivo da raggiungere. Quale migliore occasione se non quella di un NOIR per trasmettere questo clima, sfruttando un tipico filone cinematografico espressionista dai toni cupi e senza compromessi:Bene-Male.
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Spesso il cinema si limita ad essere la mera illustrazione di una storia (tratta da un romanzo) e "Vizio di Forma" fortunatamente non lo è.
In realtà Anderson usa una sceneggiatura ma al solo fine di distruggerla, sembra optare decisamente per le riprese, abbandonando l'origine letteraria della storia. Le parole sono parole, non immagini...la loro scelta lessicale non è casuale.. il testo deve servire x essere "distrutto" e guadagnare "libertà".
Oh si..la stessa libertà che si respirava tra gli anni'60 e'70 in un'America semplice, sicura, certa del proprio ruolo nel mondo e dell'obiettivo da raggiungere. Quale migliore occasione se non quella di un NOIR per trasmettere questo clima, sfruttando un tipico filone cinematografico espressionista dai toni cupi e senza compromessi:Bene-Male..Chiaro-Scuro.
Lo spaccato sociale presentato nel film mostra, in verità, un intreccio di personaggi e rapporti umani interferenti affatto gratuiti e tantomeno banali. Ma la lotta è fra Potere e Contestazione, dove è evidente che il regista fa una scelta di campo ponendosi dalla parte del mondo Hippy, non gli risparmia stoccate sottili, ma in fondo gli riconosce umanità, solidarietà e valore autentico, aspetti sempre presenti nella loro vita alternativa anche se sotto continuo effetto di stupefacenti.
Ci cala soavemente in questo periodo alla maniera psichedelica, la stessa della musica che compone la bella colonna sonora del film, le immagini ancorate ad intense caratterizzazioni di volti "umani", sempre in primo piano, i cui persistenti indugi invitano il pubblico a lasciarsi andare come se quel mondo raccontato fosse musica suonata sotto l'influsso di sostanze stupefacenti da ascoltare in analoga condizione.
L'America degli anni '70 non è solo muscoli (Big Foot - Commissario) o feccia disgustosa (Doc Sportello - Detective) sono 2 visioni ideologiche legate indissolubilmente come 2 facce "diverse" della stessa medaglia, entrambe cercano idealmente una improbabile verità e giustizia nell'ambito di una società ormai votata al declino. Si vede svanire la certezza del sogno americano quale esclusivo portale di una speranza fondata su principi libertari e anticomunisti.
Anderson ci mostra allora attraverso l'ironia il volto malato della "Mamma", Potenti magnati Ebrei protetti da gruppi Nazisti, questi ultimi in rapporti con frange del movimento Black, Anarchici ex eroinomani informatori del "Potere". Minoranze cinesi che escono dalle ChinaTowns per entrare nel commercio del sesso (bella l'idea dei centri benessere dove si paga per "leccare la.." e non vice versa).
Sembra un film senza logica ma è lo specchio di quel momento e l'unica certezza sembra essere il "Vizio di Forma" o "intrinseco" quello che nessuna società può evitare, neanche assicurandosi contro il rischio di accadimento, è l'umanità Hippy..è il loro messaggio di vita anche se a volte incoerente (vedi esperienza di Shasta).
La tecnica cinematografica offre poche riprese "aperte", molti primi piani che mettono alla fine di 2,5 ore di film (in lingua originale) un po' di fiatone, ampiamente compensati da una fotografia a tratti emozionante. Neil Young che irrompe con "Harvest" in un attimo di riflessione di Doc, una corsa Hippy sotto la pioggia, la recitazione di Phoenix, alcuni "quadri" pastello, valgono ampiamente il prezzo del biglietto. Film unitario e fedele sotto tutti gli aspetti:culturali, musicali, sociali e storici. Un grande stile di comunicazione cinematografica..un'opera da maestro.
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vincenzo ambriola
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lunedì 2 marzo 2015
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la trama che non c'è
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Doc Sportello è un investigatore privato. Lo vediamo all'azione dopo che la sua ex fidanzata lo contatta per chiedergli di indagare su un importante uomo d'affari, da poche ore sparito e probabilmente nei guai. Sembra il classico inizio di un film giallo in cui si vedranno i soliti cattivi e i soliti buoni darsela di santa ragione per vincere la partita. Ci aspettiamo grandi intuizioni da parte dell'investigatore, qualche poliziotto corrotto, qualcuno buono e così via. Invece ci troviamo all'interno di una macchina del tempo che ci riporta negli anni 60, in un'inesistente località a sud di Los Angeles, dove la droga leggera è usata a fiumi e quella pesante sta per arrivare. Il giallo si stempera nei colori delle magliette, delle gonne, nei fiori e nei capelli lunghi di una generazione nuova, che vince una battaglia contro il conformismo imperante ma perde la guerra e cede il passo ad altri valori, altri miti.
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Doc Sportello è un investigatore privato. Lo vediamo all'azione dopo che la sua ex fidanzata lo contatta per chiedergli di indagare su un importante uomo d'affari, da poche ore sparito e probabilmente nei guai. Sembra il classico inizio di un film giallo in cui si vedranno i soliti cattivi e i soliti buoni darsela di santa ragione per vincere la partita. Ci aspettiamo grandi intuizioni da parte dell'investigatore, qualche poliziotto corrotto, qualcuno buono e così via. Invece ci troviamo all'interno di una macchina del tempo che ci riporta negli anni 60, in un'inesistente località a sud di Los Angeles, dove la droga leggera è usata a fiumi e quella pesante sta per arrivare. Il giallo si stempera nei colori delle magliette, delle gonne, nei fiori e nei capelli lunghi di una generazione nuova, che vince una battaglia contro il conformismo imperante ma perde la guerra e cede il passo ad altri valori, altri miti. Seguire la trama diventa un esercizio inutile, meglio lasciarsi trasportare nelle visioni oniriche di Doc Sportello, incontrare i suoi improbabili amici e nemici, ascoltare la musica di Neil Young e lasciarsi cullare dalla fotografia, splendida, e dal ritmo lento e indolente, a volte appisolandosi e risvegliandosi sicuri di non avere perso la battuta essenziale, quella che ci avrebbe fatto capire la storia, la trama che non c'è. Il cinema è anche questo e, spesso, ce ne dimentichiamo avvelenati da serie tv ossessivamente mentali, elaborate, contorte.
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lorenzo grigio
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domenica 1 marzo 2015
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vizio di forma e sostanza
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Sembra che Paul Thomas Anderson utilzzi una storia difficile da seguire per far provare allo spettatore la sensazione del "trip da sostanza stupefacenti". a parte alcune battute geniali, la musica e la fotografia, si fa davvero fatica a stare seduti di fronte di un'accozzaglia di nomi per 2 ore e mezza.
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