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La rivoluzione ha bisogno di pubblicità

Allusioni politiche nel terzo capitolo di Hunger Games.
di Roy Menarini

In foto una scena del film.
Jennifer Lawrence (33 anni) 15 agosto 1990, Louisville (Kentucky - USA) - Leone. Interpreta Katniss Everdeen nel film di Francis Lawrence Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte I.

domenica 23 novembre 2014 - Approfondimenti

Il rischio dell'ultimo capitolo - diviso in due parti - di Hunger Games, sui tavoli degli executive hollywoodiani, aveva un nome ben preciso: Matrix Revolutions. Quando si abbandona lo schema per cui il film è entrato nell'immaginario (là le avventure nella Matrice, qui il talent show con omicidi, in entrambi i casi la lotta in un mondo virtuale), e si entra nel war movie, tutte le dominanti fino a quel momento affidabili possono franare. Il terzo capitolo della saga dei Wachowski è tuttora il meno amato, meno ricordato, meno analizzato, proprio per il suo impasto di fantascienza bellica e avventura insurrezionale.
Ma Suzanne Collins, Francis Lawrence e gli sceneggiatori avevano ben presente il problema. E compreso che il campo di battaglia simbolica di Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte I è rappresentato dai media. Ecco che - come dice a un certo punto il Presidente Snow - la partita a scacchi per la vittoria si gioca su "mosse e contromosse", in gran parte mediatiche, piuttosto che su uno scenario contrapposto ai primi due capitoli. Da una parte bisogna cioè unire i rivoltosi, di per sé divisi anche geograficamente e frustrati; dall'altra battere la grancassa della propaganda patriottica, alternata a repressioni sanguinose. Il tutto servito da media in conflitto tra loro: il broadcast principale (il Potere) diffonde e dirama il proprio discorso alla Nazione in maniera univoca; la comunicazione virale dei ribelli si insinua nelle reti e raggiunge gli spettatori potenziali. Non è più lo scontro tra una retorica e una verità, ma tra due strategie comunicative, la seconda delle quali è pur sempre in grado - grazie a Katniss - di rifiutare le finzioni troppo smaccate e scegliere invece le immagini più drammatiche allo scopo di scatenare la rivoluzione.
Ecco perché la saga è così popolare tra gli young adults. In un Occidente sempre più (fortunatamente) pacificato e dominato da logiche economiche prima che politiche, la sola idea di una distopia americana in cui i giovani vadano a combattere la guerra contro un tiranno eccita le fantasie come qualcosa di lontano e al contempo ammirevole. Tuttavia, se non ci fosse il discorso sui media, toccherebbe a Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte I risultare troppo retorico. Il tema della manipolazione dei media è d'altra parte molto sentito negli Stati Uniti, dove fin dagli avvenimenti dell'11 settembre 2001 le teorie del complotto si sprecano su qualsiasi prova audiovisiva, e Obama non ha certo aiutato la trasparenza, inciampando nei casi ermetici dell'uccisione di Bin Laden, di Wikileaks, di Snowden, e dello spionaggio NSA ai danni dei cittadini e dei leader internazionali. Certo, viene difficile pensare che i film hollywoodiani invitino al dissenso e corteggino le frange radicali dei movimenti giovanili, e infatti il discorso anti-tirannico rimane generico, e può essere letto facilmente da destra e da sinistra senza troppi problemi. Pur tuttavia, ricordiamo la riappropriazione mediatica - da parte di Anonymous e di altri gruppi di "guerriglia mediatica" - di un film tutto sommato minore come V per Vendetta. E già altri blockbuster come Il cavaliere oscuro - Il ritorno avevano cavalcato le fantasie di Occupy Wall Street con una certa sagacia.
Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte I insomma conferma la saga tratta dai volumi della Collins come quella più efficace nell'intuire sentimenti e linguaggi giovanili, grazie a un rapporto molto stretto con l'universo dei media, la serialità, la letteratura di genere, il fumetto, e persino (molto attentamente) con la moda e il femminismo contemporaneo. Prendere tutto questo troppo sul serio può essere fuorviante, ma fare spallucce e fingere che sia uno dei tanti prodotti di massa del cinema americano è altrettanto sproporzionato.

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