jaylee
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lunedì 13 gennaio 2014
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l'odissea di una strana coppia
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Stephen Frears, a mio avviso uno dei migliori registi britannici, stavolta ci racconta una storia vera, un’avventura vissuta insieme da un giornalista inglese disoccupato Martin (Steve Coogan) ed una infermiera irlandese ormai in pensione (Judi Dench), alla ricerca del figlio perduto di lei. Storia particolarmente delicata nei paesi anglosassoni, in quanto va a toccare un nervo scoperto che è quello dei conventi cattolici che, nati per fornire rifugio a ragazze madri e i loro figli, divenivano in realtà dei veri e propri carceri dove le ragazze venivano messe ai lavori forzati (in genere lavanderia) fino all’adozione del figlio. Una tematica peraltro già affrontata da Peter Mullan in Magdalene (2002).
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Stephen Frears, a mio avviso uno dei migliori registi britannici, stavolta ci racconta una storia vera, un’avventura vissuta insieme da un giornalista inglese disoccupato Martin (Steve Coogan) ed una infermiera irlandese ormai in pensione (Judi Dench), alla ricerca del figlio perduto di lei. Storia particolarmente delicata nei paesi anglosassoni, in quanto va a toccare un nervo scoperto che è quello dei conventi cattolici che, nati per fornire rifugio a ragazze madri e i loro figli, divenivano in realtà dei veri e propri carceri dove le ragazze venivano messe ai lavori forzati (in genere lavanderia) fino all’adozione del figlio. Una tematica peraltro già affrontata da Peter Mullan in Magdalene (2002).
Qui in realtà, oltre ad avere un tono decisamente più leggero, la storia si incentra quasi completamente sulla ricerca da parte di Philomena, fervente cattolica nonostante tutto, testarda, semplice e generosa, del suo Anthony; avrà come compagno di viaggi (interessato, visto che è inviato da un giornale per scriverne la storia), Martin, che inizialmente lo vede come un semplice lavoro, ma poi diverrà per lui stesso una missione.
La trama è semplice e lineare, e si sposta dall’Inghilterra all’Irlanda (sede del convento di Roscrea), per poi recarsi negli USA, ed infine ancora in Irlanda; ed è tutto perfettamente professionale e funzionale all’interpretazione di Judi Dench (si accettano scommesse sull’Oscar alla Migliore Attrice) che avrebbe potuto accontentarsi di interpretare una fragile vecchietta, invece ci regala questa signora indomita, che ama i libri sentimentali (guardate le facce di Martin, quando lei gli racconta le trame…), senza studi particolari, ma con una fede incrollabile, spesso ingenua, ma indefinitiva sana. Messa a dura prova dalla vita e dai comportamenti degli esseri umani verso di lei e verso suo figlio, inclusi e soprattutto quelli della sua fede, si aggrappa alle sue convinzioni non con il terrore di un Dio altero e vendicativo, ma con una pragmatica serenità e fede in una Natura più grande e generosa di qualsiasi pensiero razionale, che, alla fine, è alla base del miglior pensiero evangelico. Una delle scene finali (forse la più emblematica) vede proprio questo triangolo tra la rancorosa Sorella Hildegard, l’ateo razionalista Martin e questa piccola signora irlandese dagli occhi splendenti e dai gusti così semplici, che impartisce una lezione di vita a tutti e due. Lo stesso Martin metterà in dubbio alcune sue convinzioni, mettendo a confronto il suo (a volte irritante) scetticismo, e le dimostrazioni di generosità della sua compagna di viaggio al cospetto di una vita anche durissima.
L’interpretazione della Dench è allo stesso tempo il punto di forza del film ed il suo limite: il resto, altre interpretazioni incluse (anche Steve Coogan -non sembra sempre così convincente come era successo in altri casi, il che è curioso visto che è uno degli sceneggiatori!) sembra tutto in funzione della sua protagonista. Il film di Frears scorre via alternando momenti drammatici ad altri leggeri come è il suo stile, anche se non sempre approfondisce come dovrebbe e potrebbe in alcuni casi.
Ad ogni modo, più che godibile nel suo complesso, con una performance davvero superlativa che ne nobilita la riuscita.(www.versionekowalski.it)
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clacoz
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lunedì 13 gennaio 2014
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carino, ma un po' sopravvalutato
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Raramente come in questo caso mi trovo in disaccordo con un voto Mymovies così alto (4,11 nel momento in cui sto scrivendo) per un film come questo. Sicuramente un bel film, che fa ridere e fa riflettere e commuovere gli animi più sensibili, ma c'è di molto meglio a mio avviso.
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carloquinto
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sabato 11 gennaio 2014
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tre stelle e mezza...
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Politically correct, con tutti gli ingredienti giusti al posto giusto, la Dench bravissima, Coogan un po' meno (non sempre credibile), sceneggiatura diligente ma... un po' senz'anima...
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massi(mo)rdini
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venerdì 10 gennaio 2014
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il coraggio dell'appartenenza
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Non dev'essere stato semplice per Frears raccontare una storia di abusi senza scadere nell'invettiva o nel sentimentalismo; l'operazione si sarebbe però rivelata ancora più difficile, se non addirittura impensabile, senza la straordinaria performance di Judi Dench.
L'attrice inglese riesce infatti a conferire credibilità al personaggio di Philomena, una madre in cerca del figlio sottrattole in tenera età e mai più ritrovato. La donna infatti , rimasta incinta giovanissima e per questo ripudiata dalla famiglia, viene letteralmente rinchiusa in un convento di suore le quali, invece di aiutarla a crescere il bambino, lo rivendono a una famiglia di facoltosi americani per ricavarne denaro.
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Non dev'essere stato semplice per Frears raccontare una storia di abusi senza scadere nell'invettiva o nel sentimentalismo; l'operazione si sarebbe però rivelata ancora più difficile, se non addirittura impensabile, senza la straordinaria performance di Judi Dench.
L'attrice inglese riesce infatti a conferire credibilità al personaggio di Philomena, una madre in cerca del figlio sottrattole in tenera età e mai più ritrovato. La donna infatti , rimasta incinta giovanissima e per questo ripudiata dalla famiglia, viene letteralmente rinchiusa in un convento di suore le quali, invece di aiutarla a crescere il bambino, lo rivendono a una famiglia di facoltosi americani per ricavarne denaro. Sono ormai passati tanti anni quando Philomena, non potendo più nascondere il proprio segreto, entra in contatto con un giornalista da poco licenziato che, non avendo niente da perdere, decide di occuparsi della sua vicenda. Insieme si recano nel convento irlandese dove è cresciuta, dove però non riescono ad ottenere altro che parole tanto melense quanto inutili, decidendo poi di partire per gli Stati Uniti. Qui apprendono che il figlio, brillante membro del partito conservatore, era morto pochi anni prima di AIDS e, dopo lo choc iniziale, si mettono sulle tracce di coloro che l'hanno conosciuto. Scoprono quindi che aveva avuto un compagno, dal quale vengono informati riguardo le ricerche compiute per rintracciare la madre presso convento di Roscrea, lo stesso a cui i due si erano in precedenza rivolti, dove è stato oltretutto sepolto in segno di riconoscenza verso la sua vera patria. Messe alle strette, le suore sono costrette ad ammettere l'accaduto senza però mostrare alcun segno di pentimento; ancora più generoso si rivela quindi l'atteggiamento di Philomena che, accusata per l'ennesima volta di aver meritato ciò che le è successo, è disposta a perdonare pur di andare avanti. Quello che a prima vista può sembrare un gesto di resa è invece l'affermazione di una salda volontà, dimostrata anche dall'intenzione di voler rendere pubbliche le angherie subite; tutto questo nonostante il giornalista si dichiari disposto a rinunciare al suo incarico pur di non turbare ulteriormente la vita della donna, già abbastanza travagliata. Proprio sotto questo aspetto madre e figlio si dimostrano più simili che mai: lei, cattolica devota nonostante i soprusi subiti, lui, fervente repubblicano anche quando era difficile per un omosessuale esserlo.
Nel riassumere la trama ho evitato di soffermarmi sulla figura del giornalista, uomo cinico e scettico e facile preda della rabbia, che è invece quella in cui ci si può più facilmente immedesimare. Ed è proprio questo il talento di Frears: riuscire a far identificare lo spettatore non con il cronista ma con una donna che, magari nella sua ingenuità (aspetto che ce la rende ulteriormente simpatica), riesce a superare dolore e delusione senza che la sua positività ne risenta. Philomena non risulta mai una patetica credulona ma anzi è un personaggio che, pur non avendo una laurea ad “Oxbridge”, ha molto da insegnare a ciascuno di noi; allo stesso modo certe iene del giornalismo, perennemente in cerca di casi umani, hanno molto da imparare dalla lezione di di Martin Sixsmith, giornalista serio e scrupoloso nonché autore del libro da cui il film è tratto, che invece di cavalcare lo scoop ha preferito rinunciare alla cronaca per occuparsi di storia, anteponendo la propria passione al facile guadagno.
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roberto checchi
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venerdì 10 gennaio 2014
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the lost child of philomena lee
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Philomena non è la semplice storia di una semplice signora irlandese alla ricerca del proprio figlio perduto da tempo e del giornalista che la supporta, oppure il racconto delle crudeltà commesse nel convento di Roscrea, secondo un cliché di complicati intrecci più volte ritrovato, è una storia di vita e di umanità che molto può insegnare ai cinofili di tutte le età. La trama, già di per sé intrigante, è resa in modo perfetto da una sceneggiatura non a caso vincitrice alla scorsa mostra del cinema di Venezia, che non storpia il romanzo annesso, fatta eccezione per qualche licenza poetica particolarmente azzeccata, ma lo adatta al grande schermo fornendogli grande solennità.
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Philomena non è la semplice storia di una semplice signora irlandese alla ricerca del proprio figlio perduto da tempo e del giornalista che la supporta, oppure il racconto delle crudeltà commesse nel convento di Roscrea, secondo un cliché di complicati intrecci più volte ritrovato, è una storia di vita e di umanità che molto può insegnare ai cinofili di tutte le età. La trama, già di per sé intrigante, è resa in modo perfetto da una sceneggiatura non a caso vincitrice alla scorsa mostra del cinema di Venezia, che non storpia il romanzo annesso, fatta eccezione per qualche licenza poetica particolarmente azzeccata, ma lo adatta al grande schermo fornendogli grande solennità. Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza la straordinaria recitazione dei due attori protagonisti, Judi Dench e Steve Coogan, che riescono a fornire ai loro alter ego di scena una profondità e un’autenticità sicuramente degne di nota. Particolare è poi la prospettiva attraverso la quale siamo introdotti alla vicenda. Lo spettatore, infatti, si trova immediatamente in empatia col giornalista, affine a noi nel modo di pensare e di agire. Questo lo porta, in un primo momento, a guardare Philomena con superiorità, vista la natura profondamente ingenua della donna. La bellezza di questo film sta nello scoprire assieme allo stesso reporter la grandezza di questa anziana signora, le sue intuizioni spontanee e mai banali, la sua fermezza di spirito e la sua serenità. Per questo motivo vi consiglio vivamente questo ultimo prodotto del cinema indipendente inglese, perché è capace di infondere in una grande tragedia, dove pur non mancano momenti di pura comicità, una lezione di vita, una profonda lezione per ciascuno di noi.
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andrea giostra
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giovedì 9 gennaio 2014
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l'amore materno trionfa sempre!
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Judi Dench aveva dato ampia prova della sua immensa bravura recitativa e della sua classe cristallina nel bellissimo e conturbante “Diario di uno scandalo” di Richard Eyre del 2006. Adesso, con “Philomena”, supera se stessa e alla fama mondiale, raggiunta nel 1995 interpretando “M” in GoldenEye, il diciassettesimo film della serie 007, conferma la consacrazione artistica quale interprete tra le più convincenti e apprezzate del panorama internazionale della settima arte. Il film è tratto dal romanzo di Martin Sixsmith “The lost child of Philomena Lee”, pubblicato negli USA nel 2009, e racconta la storia di una donna irlandese, oramai avanti negli anni, che si mette alla ricerca del proprio figlio sottrattole da ciniche suore senza cuore e prive di umana fede del convento di Roscrea nel quale adolescente, dopo essere rimasta incinta, era stata rinchiusa dai suoi genitori.
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Judi Dench aveva dato ampia prova della sua immensa bravura recitativa e della sua classe cristallina nel bellissimo e conturbante “Diario di uno scandalo” di Richard Eyre del 2006. Adesso, con “Philomena”, supera se stessa e alla fama mondiale, raggiunta nel 1995 interpretando “M” in GoldenEye, il diciassettesimo film della serie 007, conferma la consacrazione artistica quale interprete tra le più convincenti e apprezzate del panorama internazionale della settima arte. Il film è tratto dal romanzo di Martin Sixsmith “The lost child of Philomena Lee”, pubblicato negli USA nel 2009, e racconta la storia di una donna irlandese, oramai avanti negli anni, che si mette alla ricerca del proprio figlio sottrattole da ciniche suore senza cuore e prive di umana fede del convento di Roscrea nel quale adolescente, dopo essere rimasta incinta, era stata rinchiusa dai suoi genitori. Judi Dench, con l’aiuto del giornalista Steve Coogan, inizia una ricerca, che è anche un viaggio di emozioni forti nel passato e nel presente, e che traccia dolorosi solchi nello spettatore che lascerà il cinema turbato ma al contempo soddisfatto di essersi goduto una vera opera d’arte cinematografica. Insieme a “Magdalene” di Peter Mullan, uscito nelle sale nel 2002, Philomena di Stephen Frears, con la sceneggiatura del co-protagonista-attore Steve Coogan, rappresenta una delle più intense e drammatiche denuncie sociale contro la violenza e la cinica sopraffazione di indegni preti e suore della chiesa irlandese del secolo scorso, su giovani e indifese ragazze “colpevoli” - dal loro malefico punto di vista - di possedere un’effervescente vivacità e una straripante voglia di vita e di amore terreno.
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angelo umana
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martedì 7 gennaio 2014
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peccati della chiesa
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Suor Hildegarde – Barbara Jefford, magnifica attrice nella maschera pietrificata di una suora vecchia e in sedia a rotelle, ferma o prigioniera nel suo credo e nelle sue convinzioni – dichiara al giornalista Martin Sixsmith nel 2003 di aver giurato a Dio eterna fede e di aver fatto promessa di mortificazione della carne. Pertanto è giusto che il suo collegio abbia taciuto all’anziana Philomena che il suo figlio smarrito, che avrebbe compiuto 50 anni in quei giorni, era sepolto nel loro cimitero: era espiazione del suo peccato! Philomena era stata ospite di quel collegio di orfane adolescenti negli anni cinquanta, in una libera uscita aveva concepito il suo bambino, siamo nel 1952, e come altre ragazze responsabili dello stesso “errore” o “orribile peccato” – col sesso che per giunta le era piaciuto – aveva vissuto accanto al proprio bambino ma potendolo vedere solo un’ora al giorno, finché verso i tre anni le fu portato via da una coppia americana cui le suore lo affidarono per 1000 sterline.
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Suor Hildegarde – Barbara Jefford, magnifica attrice nella maschera pietrificata di una suora vecchia e in sedia a rotelle, ferma o prigioniera nel suo credo e nelle sue convinzioni – dichiara al giornalista Martin Sixsmith nel 2003 di aver giurato a Dio eterna fede e di aver fatto promessa di mortificazione della carne. Pertanto è giusto che il suo collegio abbia taciuto all’anziana Philomena che il suo figlio smarrito, che avrebbe compiuto 50 anni in quei giorni, era sepolto nel loro cimitero: era espiazione del suo peccato! Philomena era stata ospite di quel collegio di orfane adolescenti negli anni cinquanta, in una libera uscita aveva concepito il suo bambino, siamo nel 1952, e come altre ragazze responsabili dello stesso “errore” o “orribile peccato” – col sesso che per giunta le era piaciuto – aveva vissuto accanto al proprio bambino ma potendolo vedere solo un’ora al giorno, finché verso i tre anni le fu portato via da una coppia americana cui le suore lo affidarono per 1000 sterline.
Le affermazioni di suor Hildegarde fanno pensare ai gerarchi nazisti che a Norimberga e ovunque si sono difesi dicendo di aver solo eseguito ordini. Questo è il guaio delle leggi umane e di quelle religiose, peraltro codificate da uomini, il fondamentalismo della chiesa cattolica non avendo nulla da invidiare a qualsiasi altro: le leggi sono relative ai luoghi al tempo alle persone che le promulgano, spesso dettate solo dai potenti di turno.
Una lunga esperienza di collegi, e di un collegio di suore per cinque anni proprio a cavallo dei decenni cinquanta e sessanta, mi riporta a una certa “cattiveria” di queste donne che tra fede e necessità divennero suore. Furono vittime loro stesse di discipline monacali, pure attraverso le loro tonache che lasciavano scoperto solo il viso (non la fronte) traspariva tanta insoddisfazione per una vita accettata in mancanza d’altro, di altre vite che avrebbero potuto realizzare. Nell’Irlanda di quegli anni la Chiesa si è macchiata di torti quando non di veri delitti (altri racconti, di storie vere come questa del film Philomena, sono in “Magdalene” del 2002) . Una suor Hildegarde giovane dice alla ragazzina Philomena “non sei solo tu ad aver le regole (mestruazioni)”, sembra più un rimprovero, una ripicca verso l’adolescente “peccatrice”, per la femminilità non esercitata dalla religiosa.
Steve Coogan, che impersona il giornalista Martin Sixsmith ex portavoce del governo Blair, oltreché attore è lo sceneggiatore premiato per questo film a Venezia 2013. Del tocco del regista Stephen Frears sembra dimenticarcisi, tanto l’attenzione si concentra attorno ai due protagonisti, le cui espressioni non sono prive di una certa fissità. La pellicola accompagna i due, lui e Philomena (insuperabile 80enne Judi Dench), lungo il viaggio in America alla ricerca di Anthony, chiamato poi Michael Hess dalla famiglia adottiva, bambino “molto sensibile” da piccolo e, da adulto, affascinante e carismatico addetto stampa di Reagan e Bush sr.; nelle occasioni ufficiali si accompagnava a una finta moglie, non essendo consentito esibire un compagno di vita omosessuale. Nel soggiorno americano Philomena Lee osserva in filmati il figlio che non ha visto crescere e vedendolo le pare di averlo avuto, conosciuto, ne è contenta, sa che con lei – modesta infermiera – “non avrebbe avuto una vita così”. E’ un viaggio di conoscenza reciproca dei due, che comincia e finisce nel collegio-convento delle figlie del Sacro Cuore. Martin, cosciente che “non serve la religione per essere equilibrati e felici”, apprende dall’anziana il perdono, Philomena non vuole odiare, del resto “è estenuante essere arrabbiati”. Il perdono da lei dichiarato alla vecchia Hildegarde, però, suona come un tremendo giudizio.
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no_data
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domenica 5 gennaio 2014
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non riesce a commuovere
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Il film non convince completamente.
Philomena, l'anziana protagonista, recita bene ma più che quando parla è reale quando tace e guarda.
Martin, il giornalista che l'aiuta a ritrovare il figlio, invece non è credibile. Non è dentro al personaggio. Ne rimane fuori per incapacità a entrare nella parte.
E' chiaramente anaffettivo.
Anche il pubblico rimane perplesso e non appagato neanche dal 'lieto' fine del raggiungimento dello scopo di Philomena.
Colonna sonora e riprese esterne mediocri.
Peccato!
[+] film sopravvalutato
(di robert mann)
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