Bene, lo sappiamo. I Coen fanno ottimi film. Da Blood simple, a Fargo, da Barton Fink a L'uomo che non c'era su tutti. Ma come si fa a paragonare Inside Llewyn Davis (A proposito di Davis) a queste chicche?
Siamo nel 1961 e Llewyn Davis (il cui padre di origine irlandese è stato un marinaio noto nell'ambiente, la madre invece era italiana) non volendo imbarcarsi su un peschereccio né servire l'esercito americano per Kennedy, sentendo forte in sé una vena di malinconioso ed intenso folk-singer non vuole rinunciare al suo sogno artistico, sebbene non riesca a mettere insieme il pranzo con la cena e mostri in ogni occasione di essere sempre capace di perdere qualcosa (un figlio che non sapeva di avere, una donna a cui dice "ti amo", lo scatolone dei ricordi d'infanzia, un brevetto di navigazione indispensabile, il gatto). E infatti è un loser, ma non solo secondo i parametri dell'industria culturale del folk, che mostra di apprezzare lagne o divertissement idioti molto peggiori dei classici che interpreta lui con tanta intensità. Non solo perché è un artista da localino piccolo e fumoso del Greenwich newyorkese (svelato qui senza nessuna indulgenza romantica), ma perché rappresenta un'arte vecchia. Vecchia e sorpassata è la musica che suona e che non sa reinterpretare, come farà invece Bob Dylan (che sentiamo al suo debutto proprio nel finale); Elvis già suonava da anni ed era famoso (è citato nel film) e nel 1962 negli Stati Uniti sbarcheranno i Beatles. Un mondo di confine quello attraversato da Davies, tra il vecchio e rimasticato che resiste solo nelle forme più stucchevoli in attesa di un vero poeta (Dylan) e la vera bomba di novità capace di conciliare cultura e affari quale sarà il pop. Insieme a questo personaggio esile, incerto, senza un vero dramma e senza una vera vena che lo esprima, compare la vecchia guardia dei jazzisti nella coeniana grottesca figura del vecchio musicista eroinomane e sciancato, in compagnia del quale Davies compie il suo fallimentare viaggio a Chicago in cerca di un contratto. Si intrecciano così due derive, su una strada che è fredda, buia e senza consolazioni. Se questo film ha un merito non sta nella struttura ad anello, nei simbolismi un po' patacca del gatto che si chiama Ulisse con tutta la mitologia del nostos e del viaggio della conoscenza, né sta nella pur accennata pittura sociale degli appassionati di musica upper-class che si improvvisano benefattori del povero giovane Davies, ma nel fatto che in mezzo a tanti vecchi (anche i produttori lo sono) anche lui, giovane, è un vecchio. Hang me, hang me, canta Davies ben due volte. Sarà accontentato dalla Storia. E intanto noi spettatori ci domandiamo: e dunque?
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