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La Heimat che non finisce mai

Il cinema in movimento di Roy Menarini.
di Roy Menarini

In foto una scena del film.
Jan Dieter Schneider . Interpreta Jakob Simon nel film di Edgar Reitz L'altra Heimat - Cronaca di un sogno.

martedì 31 marzo 2015 - Approfondimenti

Infinito Edgar Reitz. Difficile trovare nella storia del cinema altri autori che abbiano dedicato così tanta parte della loro vita a un solo, immenso progetto: la serie di Heimat. Un villaggio tedesco attraverso il quale capire la storia tedesca, i rapporti umani e sociali, le vicende europee, la storia del progresso e della civiltà, e molto altro ancora. L'altra Heimat - Cronaca di un sogno, in uscita in sala, è qualcosa che sta sospesa tra un film di quattro ore, un contenuto alternativo, un evento mediatico, un romanzo per immagini di sapore tradizionale.
Ma non c'è bisogno di interrogarsi sul senso dell'operazione, quanto concentrarsi sull'opera. A differenza delle attese (Edgar Reitz aveva più volte ammesso di avere un soggetto pronto per un nuovo Heimat ambientato dall'11 settembre 2001 in poi, poco dopo la conclusione cronologica del terzo capitolo), ci troviamo di fronte a quello che a Hollywood definirebbero prequel. L'ambientazione è la solita, il villaggio di Schabbach, ma lo sfondo è quello della Germania rurale di metà Ottocento, in un periodo di fame e povertà, segnato dall'emigrazione verso il lontano Sud America - in direzione opposta al terzo Heimat, che raccontava l'immigrazione est-europea in Germania nel dopomuro. Tra 1842 e 1843, Reitz narra la storia di due fratelli di fronte al più difficile dei dilemmi: restare o lasciare la propria terra, con genitori vecchi e malati e una modernità che sembra sempre alle porte ma non giunge che attraverso echi lontani.
È proprio nella Germania del 1842 che Reitz individua un passaggio storiografico epocale, tra Prussia e provincia, artigianato e progresso tecnologico, collettività e identità, aspirazioni personali e regole comunitarie. Il protagonista Jacob, come altri membri della famiglia Simon nei capitoli precedenti (anzi, futuri dal punto di vista diegetico), funge da detonatore, un romantico malinconico, un dotto tra i contadini, un alieno nel suo stesso villaggio, un frutto caduto lontano dall'albero genealogico, e per questo motivo un prisma perfetto (in quanto personaggio insoddisfatto e trasfiguratore) per adottarne il punto di vista. La passività di Jacob, diventa così il plasma che scorre nel film. Anche questa volta Reitz alterna il bianco e nero - largamente prevalente - al colore, che interviene solo di fronte ad oggetti di valenza simbolica o a descrizioni naturali fatte da qualche personaggio.
A un certo punto compare anche Werner Herzog, nei panni nientemeno che di Alexander von Humboldt, il naturalista fratello minore di Wilhelm, che aveva viaggiato in Sud America classificando piante, animali e rocce. Von Humboldt ha l'occasione di misurare con un visore un campo naturale, in fondo al quale si scorge un pesano con largo cappello, interpretato da Edgar Reitz. Ecco, mentre Herzog fissa Reitz attraverso un mezzo oculare, noi ci rendiamo contro che, ben lungi dall'essere un vezzo tra vecchi eroi del nuovo cinema tedesco, la sequenza trasmette tutta la passione e la competenza del creatore di Heimat, ormai ottantenne, che si rifugia nella storia ottocentesca del suo Paese per raccontare ancora una volta, e forse per l'ultima, l'universo umano, antropologico, linguistico e geografico del concetto di patria.

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