enzo70
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mercoledì 26 febbraio 2014
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il dramma eterno dell'uomo visto da mc queen
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Visto che è dalla parte del pubblico, è inutile dilungarsi nelle chiacchiere, tipiche della critica, molto meglio una cronaca della sala cinematografica durante la proiezione di questo bellissimo film di Steve Mc Queen. All’inizio silenzio, il film ha diverse sovrapposizioni temporali che creano un po’ di sconcerto, poi la storia si ricompone sullo schermo e lo spettatore inizia a rilassarsi. Ma dura poco, questo non è un film da spa o per signorine, storia vera, drammaticamente vera, quella di Solomon Northup, magistralmente interpretato da Chiwetel Ejiofor, uomo libero divenuto schiavo. E mentre sullo schermo vanno in onda le scene del dramma di Solomon, l’angoscia domina la sala, il fiato diventa corto, si sente, ogni frustata che dilania le carni degli schiavi arriva dritta nella sala cinematografica, dritta al cuore; ogni angheria di ogni sovraintendente, meschinità dell’uomo che offende l’uomo, unisce la sala in un silenzio fatto solo di silenzio ed angoscia.
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Visto che è dalla parte del pubblico, è inutile dilungarsi nelle chiacchiere, tipiche della critica, molto meglio una cronaca della sala cinematografica durante la proiezione di questo bellissimo film di Steve Mc Queen. All’inizio silenzio, il film ha diverse sovrapposizioni temporali che creano un po’ di sconcerto, poi la storia si ricompone sullo schermo e lo spettatore inizia a rilassarsi. Ma dura poco, questo non è un film da spa o per signorine, storia vera, drammaticamente vera, quella di Solomon Northup, magistralmente interpretato da Chiwetel Ejiofor, uomo libero divenuto schiavo. E mentre sullo schermo vanno in onda le scene del dramma di Solomon, l’angoscia domina la sala, il fiato diventa corto, si sente, ogni frustata che dilania le carni degli schiavi arriva dritta nella sala cinematografica, dritta al cuore; ogni angheria di ogni sovraintendente, meschinità dell’uomo che offende l’uomo, unisce la sala in un silenzio fatto solo di silenzio ed angoscia. Poi prende la scena Michael Fassbender, l’attore preferito di Mc Queen, ed il tono della storia diventa ossessivo, il rigore dell’uomo prende il sopravvento sulle meschinità dell’umanità, le contraddizioni si sentono, gli spettatori venuti in coppia parlano tra di loro, chi sta da solo, parla da solo, come può un uomo, disse una canzone. Poi arrivano i buoni, per una volta nella storia il nord ha avuto ragione, Salomon è tornato libero ed ha avuto la possibilità di scrivere la sua storia e far uscire intensi lacrimoni ai sempre più attoniti spettatori. E un film è un grande film quando alla fine, mentre scorrono i titoli di coda, tutti rimangono seduti senza parlare, diventa difficile lasciare quella poltrona dove abbiamo appreso la storia di Salomon.
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jennyve_65
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martedì 11 marzo 2014
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12 anni schiavo: 8 euro buttati al vento
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L'unica spiegazione possibile a questo Oscar a "miglior film" conferito a "12 anni schiavo" risiede nel debito che la popolazione statunitense paga ancora al suo passato. E' l'unica. Il film non solo non merita l'Oscar ma non avrebbe meritato neanche la nomination.. aggiungo, non vale gli 8 euro del biglietto. Grondante di stereotipi (il negro buono, il bianco cattivo) , di scene scontate, non offre mai uno spazzo di eccellenza. Regia piatta, montaggio lento, recitazione bovina, qualche cenno di fotografia, sceneggiatura con tratti di ingenuità ma sostanzialmente insulsa. Gli unici brividi nelle violenze esplicite, nelle impiccagioni al rallenty, nelle frustate splatter.
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L'unica spiegazione possibile a questo Oscar a "miglior film" conferito a "12 anni schiavo" risiede nel debito che la popolazione statunitense paga ancora al suo passato. E' l'unica. Il film non solo non merita l'Oscar ma non avrebbe meritato neanche la nomination.. aggiungo, non vale gli 8 euro del biglietto. Grondante di stereotipi (il negro buono, il bianco cattivo) , di scene scontate, non offre mai uno spazzo di eccellenza. Regia piatta, montaggio lento, recitazione bovina, qualche cenno di fotografia, sceneggiatura con tratti di ingenuità ma sostanzialmente insulsa. Gli unici brividi nelle violenze esplicite, nelle impiccagioni al rallenty, nelle frustate splatter. Nessun elemento di novità, nessuna perizia tecnica, nessuna emozione. Noia incredula.
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(di barracuda argento)
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il gabbiano
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giovedì 30 aprile 2015
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ennesimo film denuncia senz'anima
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Steve McQueen, dopo aver esposto in maniera cruda le sofferenze e le debolezze dell'essere umano nei suoi precedenti successi "Hunger" e "Shame", capisce che per ambire all'Oscar deve dirigere qualche fim incentrato su tematiche delicate e/o patriottiche, per le quali l'Academy sembra avere sempre una perversa considerazione. E infatti il romanzo autobiografico di Solomon Northup, musicista nero rapito e ridotto schiavitù per 12 anni nella spietata America ottocentesca, è proprio quello spunto che il regista cerca per imbastire, con il suo solito stile, un (ennesimo) film denuncia sulla schiavitù, con l'intento di sensibilizzare il pubblico e soprattutto i giudici dell'Academy, che senza grandi soprese gli hanno conferito la statuetta come miglior film 2014.
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Steve McQueen, dopo aver esposto in maniera cruda le sofferenze e le debolezze dell'essere umano nei suoi precedenti successi "Hunger" e "Shame", capisce che per ambire all'Oscar deve dirigere qualche fim incentrato su tematiche delicate e/o patriottiche, per le quali l'Academy sembra avere sempre una perversa considerazione. E infatti il romanzo autobiografico di Solomon Northup, musicista nero rapito e ridotto schiavitù per 12 anni nella spietata America ottocentesca, è proprio quello spunto che il regista cerca per imbastire, con il suo solito stile, un (ennesimo) film denuncia sulla schiavitù, con l'intento di sensibilizzare il pubblico e soprattutto i giudici dell'Academy, che senza grandi soprese gli hanno conferito la statuetta come miglior film 2014. Ciò che rende accattivante la pellicola sono le più che apprezzabili recitazioni degli interpreti (su tutti Michael Fassbender) e il fatto che questa Odissea di sventure del povero Northup sia la versione cinematografica di una storia realmente accaduta, cosa che fa certamente riflettere lo spettatore. Per il resto un film molto lento e con pochi acuti, acceso solo dalle scene cruente, messe con l'intento di dare più pepe alla trama, e con dialoghi di una retorica banale e fine a se stessa. Non certo un prodotto innovativo.
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pepito1948
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martedì 25 febbraio 2014
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un'occasione sprecata
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Il film appartiene a quel filone nobile, che attraverso la rappresentazione di violenze, soprusi e angherie varie, illustra gli abissi dell'abiezione umana, con lo scopo di rinfocolare nelle coscienze il rigetto verso le peggiori manifestazioni di inumanità, soprattutto verso quelle che la storia ha tramandato, costringendo i posteri a farne un dolorosa elaborazione e a fissarle nella memoria collettiva come monito per le generazioni successive.
Il tema dell’abominio della schiavitù è trattato con riferimento ad un fenomeno poco conosciuto: il rapimento di uomini liberi da inviare nelle piantagioni di cotone negli Stati americani del Sud. Siamo nel 1841, dopo il divieto di importazione di schiavi neri dall'Africa (la guerra di secessione e l'abolizione della schiavitù sono di là da venire).
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Il film appartiene a quel filone nobile, che attraverso la rappresentazione di violenze, soprusi e angherie varie, illustra gli abissi dell'abiezione umana, con lo scopo di rinfocolare nelle coscienze il rigetto verso le peggiori manifestazioni di inumanità, soprattutto verso quelle che la storia ha tramandato, costringendo i posteri a farne un dolorosa elaborazione e a fissarle nella memoria collettiva come monito per le generazioni successive.
Il tema dell’abominio della schiavitù è trattato con riferimento ad un fenomeno poco conosciuto: il rapimento di uomini liberi da inviare nelle piantagioni di cotone negli Stati americani del Sud. Siamo nel 1841, dopo il divieto di importazione di schiavi neri dall'Africa (la guerra di secessione e l'abolizione della schiavitù sono di là da venire). L'economia del Sud entra in crisi e qualcuno decide di ricorrere, tramite intermediari senza scrupoli, al rapimento illegale di uomini liberi in patria per integrare la insufficiente mano d'opera.
Solomon, cittadino nero, istruito e con moglie e figli, viene "catturato"con l'inganno e venduto come schiavo all'asta, finendo, dopo alcuni passaggi, nella fattoria del peggiore dei negrieri. Dopo abusi a non finire, la storia si risolverà ma la giustizia sarà la grande sconfitta.
E' questo il terzo atto della "trilogia della lotta di liberazione" del regista di colore Steve McQuinn, dopo Hunger (sulle brutali prigioni dell'Inghilterra thatcheriane), e Shame (sulla schiavitù del sesso). Dei tre certamente 12 anni schiavo emerge per valenza "valoriale", affrontando un tema di ampia portata la cui prassi costituisce il culmine del disprezzo della vita umana, dopo la pena di morte, e che sappiamo continua ancora oggi di fatto a serpeggiare sia pure in altre forme in varie parti del mondo
McQuinn ripropone in primo piano, come in Hunger, il corpo come oggetto della violenza e della sofferenza che ne deriva, non più autoprodotta per spirito di ribellione contro l’altrui abiezione, ma forzatamente e direttamente subita da uno dei rappresentanti di un sistema di sfruttamento che, pur di trarne utili economici, si rifiuta di distinguere un essere umano da un comune animale da lavoro. Le frustate, gli stupri, le continue minacce di pene corporali terribili sono esibiti attraverso i segni martoriati sul corpo e le espressioni di dolore, di paura di uomini e donne in balia della follia di chi mira all’annientamento della dignità come strumento di totale sottomissione. Un teatro dell’orrore, che sembra stridere con la cupa ed inquietante bellezza della natura circostante.
Detto questo, se si scinde l'aspetto nobilmente teleologico da quello cinematografico, l'opera di McQuinn è artisticamente deludente. La rappresentazione nuda e cruda delle continue sevizie sugli schiavi, reiterata senza tregua, unita alla durata del film, 2 ore e un quarto, una sceneggiatura sostanzialmente piatta e senza particolari guizzi inventivi (soprattutto nei dialoghi) pur in un quadro scenografico accurato, non riescono a tenere costantemente alto il tono emotivo della storia, che si diluisce per automatico avvezzamento via via che il racconto si dipana. Qualche personaggio è costruito con l'accetta, come la moglie algida e degenerata del proprietario negriero, la fotografia è bella ma spesso estetizzante e poco connessa al racconto, gli interpreti sono bravi, in particolare Fassbender, ammirevole nello sforzo di degradarsi a scellerato aguzzino, che però non raggiunge il livello del protagonista dello straordinario, meraviglioso Hunger.
Insomma un'occasione (artisticamente ) sprecata, che tuttavia non impedisce che il film merita di essere visto per il suo alto valore morale.
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jackmalone
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venerdì 21 marzo 2014
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god bless america
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Che cos'é la patria ? Forse un insieme di valori e di ideali che riescono a tenere uniti popoli e individui tanto diversi : schiavisti o liberali, sfruttatori o filantropi, generosi o intolleranti, psicopatici o saggi . Anche il più nefasto sfruttamento dell'uomo sull'uomo , lo sterminio di un popolo e la distruzione di un enorme patrimonio culturale, come quello degli indiani d'America,sono stati giustificati nel tentativo di costruire un'identità nazionale e nel nome della laboriosità, del coraggio, del disprezzo del pericolo, dell'ottimismo e della fiducia nelle capacità umane.Eppure, anche senza aver mai concretamente realizzato un'idea di patria, su questi valori è stato costruito il paese più avanzato del mondo, il più multiculturale dove ciascuno riesce ad avere un'opportunità e, se la si sa cogliere, un afroamericano può diventare presidente e il figlio di un immigrato italiano sindaco di New York.
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Che cos'é la patria ? Forse un insieme di valori e di ideali che riescono a tenere uniti popoli e individui tanto diversi : schiavisti o liberali, sfruttatori o filantropi, generosi o intolleranti, psicopatici o saggi . Anche il più nefasto sfruttamento dell'uomo sull'uomo , lo sterminio di un popolo e la distruzione di un enorme patrimonio culturale, come quello degli indiani d'America,sono stati giustificati nel tentativo di costruire un'identità nazionale e nel nome della laboriosità, del coraggio, del disprezzo del pericolo, dell'ottimismo e della fiducia nelle capacità umane.Eppure, anche senza aver mai concretamente realizzato un'idea di patria, su questi valori è stato costruito il paese più avanzato del mondo, il più multiculturale dove ciascuno riesce ad avere un'opportunità e, se la si sa cogliere, un afroamericano può diventare presidente e il figlio di un immigrato italiano sindaco di New York. Ciò non succede in nessuna altra parte del mondo perché gli americani hanno fatto da soli la propria storia, nel bene e nel male; hanno fatto una guerra civile per abolire la schiavitù, sono stati i primi ad abolire il segregazionismo, a promuovere il pacifismo, le rivoluzioni giovanili, i cambiamenti culturali , le unioni gay e tutte le innovazioni tecnologiche che sono patrimonio di tutto il genere umano .Anche nella società schiavista ,in cui la vita umana vale meno di zero, e in cui Solomon viene catapultato suo malgrado, gli stessi valori sopravvivono : chi è laborioso , coraggioso e soprattuto riesce a mantenere la sua dignità di individuo e il suo equilibrio psichico ha qualche possibilità di farcela, di compiere il suo percorso e fare il suo pezzetto di storia .Niente gli viene regalato, nè risparmiato perchè é così che funziona in America: quello che ottieni devi sudartelo, perché non ci sarà nè la fortuna nè la provvidenza ad aiutarti, sia esso il benessere economico, una conquista civile o semplicemente la libertà.12 anni schiavo é un vero film, cioé un film tradizionale che ha tutti gli ingredienti che una volta avevanoi film perciò ha vinto l'oscar: c'è la fotografia di un documentarista, una recitazione dignitosa , un soggetto tratto da una storia vera,spargimento di sangue e violenza gratuita ,zero effetti speciali. Manca quella marcia in più che c'era una volta nei film da oscar e manca soprattutto il senso del tempo che passa , perché tutto sembra troppo immobile .
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nik deco
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martedì 29 aprile 2014
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tra spielberg e tarantino: l'anna frank d'america
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Nessuna descrizione può risultare tanto appropriata come quella data da Steve McQueen in merito alla sua ultima, olimpica,fatica registica, 12 anni schiavo: il film evento dell’anno è “una storia d’amore”. Uscito a febbraio nelle sale cinematografiche italiane, la pellicola, vincitrice di 3 Academy Awards (miglior film, miglior attrice non protagonista e miglior sceneggiatura non originale), basandosi seppur con qualche licenza narrativa sull’autobiografia di Solomon Northup, narra la reale storia di un violinista nero (magistralmente interpretato da Chiwetel Ejiofor) che a metà ‘800 viene ingannato, privato della sua libertà e venduto come schiavo. Dapprima per William Ford e successivamente per Edwin Epps, Solomon lavorerà in Louisiana come schiavo nelle piantagioni per 12 anni, prima di poter ricongiungersi con la propria famiglia, creando durante la prigionia un profondo legame affettivo con la schiava Patsey (Lupita N’Yongo) che lo accompagnerà fino al termine della narrazione.
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Nessuna descrizione può risultare tanto appropriata come quella data da Steve McQueen in merito alla sua ultima, olimpica,fatica registica, 12 anni schiavo: il film evento dell’anno è “una storia d’amore”. Uscito a febbraio nelle sale cinematografiche italiane, la pellicola, vincitrice di 3 Academy Awards (miglior film, miglior attrice non protagonista e miglior sceneggiatura non originale), basandosi seppur con qualche licenza narrativa sull’autobiografia di Solomon Northup, narra la reale storia di un violinista nero (magistralmente interpretato da Chiwetel Ejiofor) che a metà ‘800 viene ingannato, privato della sua libertà e venduto come schiavo. Dapprima per William Ford e successivamente per Edwin Epps, Solomon lavorerà in Louisiana come schiavo nelle piantagioni per 12 anni, prima di poter ricongiungersi con la propria famiglia, creando durante la prigionia un profondo legame affettivo con la schiava Patsey (Lupita N’Yongo) che lo accompagnerà fino al termine della narrazione.
Non bastano i premi cinematografici, seppur numerosi e prestigiosi, a descrivere un film che a buon diritto completa ma non conclude il discorso partorito da un illuminato cinema hollywoodiano con il pastorale ritratto politico del Lincoln di Spielberg e il sanguinario ed eccentrico, ma mai banale o riduttivo, Django Unchained di Tarantino. Sono proprio questi registi a cui McQueen si riallaccia fondendo stili narrativi e artistici dell’uno e dell’altro, dando origine a una armonica e conturbante mescolanza di amore, violenza e nostalgia. La forza motrice dell’opera sta proprio nell’affermazione dialogica tra la violenza e l’amore: il regista si rende capace di superare l’olocaustica concezione cinematografica della schiavitù, fatta di dramma e omaggio, per approdare ad una risoluzione del tutto nuova nella trattazione del tema. Gli occhi di cui McQueen si serve per sondare il campo relazionale dei personaggi non sono gli occhi omniscenti del regista, e nemmeno quelli del suo protagonista. L’innovazione si riscontra nella scelta del protagonista: non è Solomon, non è nessuno schiavo. È Edwin Epps (Michael Fassbender, per questo ruolo condidato all’Oscar), l’insensibile schiavista di stampo tarantiniano che apporta al film una concreta dose di violenza e odio. Non l’estroso gusto sanguinario di Tarantino, bensì una violenza reale, esacerbata che molto ricorda il Munich di Spielberg. Solomon e Petsey vengono posti in secondo piano: non sono che narratori terzi della loro tragedia, incapaci di comprendere razionalmente la brutale realtà che li circonda ma fiduciosi nel fatto che l’amore è presente in tutti, persino nella più profonda inumanità. Ma se la costante speranza di fraternità tra bianchi e neri di Solomon in conclusione risulta essere legittimata da quei bianchi che gli garantiranno la libertà, il desiderio di giustizia degli altri personaggi viene sistematicamente frustrato. Nei concenti campi di cotone il blues e il gospel richiamano alla provvidenza divina: gruppi di schiavi esausti trovano la forza per sopravvivere nel canto, richiamo spirituale di una forza travolgente ma assente, l’amore appunto. Il simbolismo musicale non si riduce a ciò: il violino di Solomon è l’unico mezzo che stabilisce il legame con il suo passato da uomo libero, sia che lo condanna ad essere riconosciuto come diverso dagli altri neri, “allevati come bestie” per servire i padroni.
Tuttavia McQueen, a differenza dei suoi mentori, pur padrone di eccellenti spunti riflessivi, manca di quella capacità di approfondire e portare a compimento ciò che viene proposto. La regia è rapida, corre di fronte a un film che in alcuni tratti risulta superfluo e in altri fin troppo esauriente (incerta la scelta di lunghe inquadrature fisse su volti, azioni e paesaggi), lancia messaggi ed emozioni allo spettatore in continua sequenza, e prima che si possa compiere l’atto di partecipazione emotiva alle vicende narrate, subito è necessario riprendere i fili della narrazione, nervosa e incompleta. Narrazione frutto del desiderio del regista per una narrazione omniscente e un narratore che è, all’opposto, forzatamente passivo e spettatoriale. Non basta neanche la vena di sadismo, leitmotiv di McQueen già in Shame e in Hunger, approfonditamente trattata, a conferire al film la concretezza e il pathos necessari a definirla un capolavoro. La tentata fusione delle provate visioni spielberghiane e tarantiniane si risolve in una regia immatura, che non soddisfa le aspettative di un’opera così importante. Non un’occasione sprecata, ma sicuramente non sfruttata al meglio. I migliori frutti del film sono concepiti dagli attori, magnifici e accademici nei loro rispettivi ruoli e capaci di trasmettere tutto ciò che una così importante sceneggiatura è tenuta a inculcare. Un film ben distante dai livelli raggiunti dalle precedenti opere sullo schiavismo, ma sicuramente una tappa fondamentale nel percorso di maturazione del regista, e capace di offrire un innovativo punto di vista, svincolato dai canoni di compassione e generalizzazione per così tanto tempo seguiti dal cinema hollywoodiano. Una dettagliata descrizione, un diario di sentimenti su una tragedia così grande vista da occhi tanto piccoli.
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khaleb83
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domenica 25 maggio 2014
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incomprensibilmente sopravvalutato
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Non ci si spiega il perché di tanto successo di questo film. Che gli statunitensi abbiano sempre una certa difficoltà a prendere le misure con la propria storia, avendone poca, specie quando questa va contro lo stereotipo di guida del mondo libero che hanno di sé, è innegabile; ma sopravvalutare per questo solo motivo un film così scadente è comunque inspiegabile.
Il film è lungo, lungo fino alla noia eppure riesce assolutamente a mancare l'idea del tempo che trascorre: per quanto ne sappiamo, il protagonista potrebbe essere stato tenuto in schiavitù pochi giorni, nulla dà l'idea dello stillicidio del tempo che trascorre (e piccoli espedienti come la crescita dei bambini non lo risolvono, se non a livello prettamente razionale ma non efficace).
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Non ci si spiega il perché di tanto successo di questo film. Che gli statunitensi abbiano sempre una certa difficoltà a prendere le misure con la propria storia, avendone poca, specie quando questa va contro lo stereotipo di guida del mondo libero che hanno di sé, è innegabile; ma sopravvalutare per questo solo motivo un film così scadente è comunque inspiegabile.
Il film è lungo, lungo fino alla noia eppure riesce assolutamente a mancare l'idea del tempo che trascorre: per quanto ne sappiamo, il protagonista potrebbe essere stato tenuto in schiavitù pochi giorni, nulla dà l'idea dello stillicidio del tempo che trascorre (e piccoli espedienti come la crescita dei bambini non lo risolvono, se non a livello prettamente razionale ma non efficace). Alcune scene sono innegabilmente intense, ma rimangono profondamente isolate; soprattutto il finale sacrifica qualsiasi verosimiglianza nelle reazioni dei personaggi, in nome dei tempi drammatici.
La recitazione è banale, nulla colpisce particolarmente se non il piccolissimo ruolo di Cumberbracht, e la magistrale interpretazione di Fassbender; che, tuttavia, sviliscono il film da altre prospettive, riducendo a dramma personale quella che è stata una piaga sociale.
Assolutamente fuori contesto Brad Pitt, che appare come una sorta di incausato deus ex machina; dubito non ci fossero modi migliori di sottolinearne la presenza nella sceneggiatura, pur rispettando gli accadimenti reali cui il film è ispirato.
In definitiva un film che ha vinto un Oscar solo per la tematica affrontata, non certo per il modo in cui è riuscito a trattare l'argomento né tantomeno per meriti prettamente cinematografici: altamente evitabile.
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the thin red line
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giovedì 22 gennaio 2015
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la schiavitù secondo mc queen
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Solomon è un nero libero ai tempi della schiavitù, è un apprezzato violinista e stimata persona. Viene raggirato e drogato da chi credeva amico e venduto come schiavo a un ricco proprietario terriero del sud, alcolista e ben poco tenero. Passerà ingiustamente da schiavo 12 anni della sua vita perdendo tutto ciò che aveva costruito, ma ritrovando il bene assoluto: la libertà.
Diretto con cura maniacale, "12 anni schiavo" è, tuttavia, l'ennesima opera messa in piazza in tempi di oscar per ricordarci quanto la schiavitù sia stata difficile da abolire e quante persone di colore ne abbiano sofferto vessazioni e umiliazioni.
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Solomon è un nero libero ai tempi della schiavitù, è un apprezzato violinista e stimata persona. Viene raggirato e drogato da chi credeva amico e venduto come schiavo a un ricco proprietario terriero del sud, alcolista e ben poco tenero. Passerà ingiustamente da schiavo 12 anni della sua vita perdendo tutto ciò che aveva costruito, ma ritrovando il bene assoluto: la libertà.
Diretto con cura maniacale, "12 anni schiavo" è, tuttavia, l'ennesima opera messa in piazza in tempi di oscar per ricordarci quanto la schiavitù sia stata difficile da abolire e quante persone di colore ne abbiano sofferto vessazioni e umiliazioni. Certo la scaltrezza di Steve Mc Queen di proporlo a inizio anno sa tanto di mezzuccio per tornare a casa carico di statuette e cosi è stato, uno stratagemma già pensato da Spielberg ai tempi di Schindler's List con risultati assai migliori e meritati nonchè con il precursore "Amistad". Perchè se non fosse stato per la sua tematica calda ancora ai giorni nostri questo film sarebbe scivolato via come nulla fosse. Non presenta novità in fatto di tematiche e non ci racconta nulla di nuovo, ma si limita per filo e per segno a narrare questa terribile storia vera mirando al cuore dei sempre sensibili giurati dell'oscar che hanno abboccato come di consueto votandolo addirittura come miglior film. La pesantezza dei contenuti, le barbarie dei bianchi nei confronti degli schiavi e l'ignobile indifferenza del resto della società vengono sbattute in faccia allo spettatore in ogni immagine, in ogni scena del film e in tutti i primi piani sofferenti dei protagonisti. Ma diversamente dalle precedenti opere del regista "Hunger" e "Shame" qui è tutto più liftato e meno propenso a colpire direttamente allo stomaco. Una, a volte insopportabile, denuncia di fatti mai dimenticati che ogni giorno ci vengono sbattuti in faccia dai documentari e dai telegiornali ma che qui optano esclusivamente ad ingrassare le tasche della produzione riducendo il film più ad uno spot che non ad un opera originale. Anche la durata insostenibile non facilita la visione, nemmeno le interpretazioni mi hanno esaltato al di là di quel sempre presente Fassbender che alza di sicuro il livello. Oscar alla migliore attrice a Lupita Nyong'o per aver pianto 2 ore.
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cress95
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mercoledì 8 aprile 2015
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un uomo ridotto a schiavo, uno schiavo elevato a leggenda
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Nel (lontanissimo) luglio del 1853 viene pubblicato un libro scritto da un uomo all'apparenza comune (ma con un'incredibile storia vera da raccontare), Solomon Northup. Il manoscritto, destinato a smuovere le coscienze di più di 30.000 americani, appare a prima vista una tra le tante autobiografie presenti sul mercato, distinguendosi soltanto per via del nome crudo e lapidario: Twelve Years a Slave, "12 anni schiavo".
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Nel (lontanissimo) luglio del 1853 viene pubblicato un libro scritto da un uomo all'apparenza comune (ma con un'incredibile storia vera da raccontare), Solomon Northup. Il manoscritto, destinato a smuovere le coscienze di più di 30.000 americani, appare a prima vista una tra le tante autobiografie presenti sul mercato, distinguendosi soltanto per via del nome crudo e lapidario: Twelve Years a Slave, "12 anni schiavo". Nessun giro di parole, nessuna squallida né artificiosa prosopopea che "indolori" l'amara realtà: la storia di Solomon Northup, violinista di colore dello Stato di New York, è la tragedia di un uomo nato libero e ad un certo punto della sua vita ridotto in catene per servire come schiavo. Non per 1, non per 2, bensì per 12 anni della sua vita.
Esattamente 160 anni dopo esce nelle sale un film, destinato anch'esso a smuovere le coscienze (anche se questa volta di diversi milioni di spettatori), ma in aggiunta a cambiare per sempre la storia del cinema. Anche questa volta è il titolo a non lasciare spazio ai dubbi: Twelve Years a Slave, "12 anni schiavo".
Nella mastodontica creatura di Steve McQueen, dopo più di un secolo e mezzo, "torna alla luce" l'odissea di Northup, e lo fa con un'impetuosità ai limiti della prepotenza. Lo spettatore è "scaraventato" letteralmente nella tragedia del protagonista (magistralmente interpretato da un grandissimo Chiwetel Ejiofor), ed è costretto a viverla in prima persona, tutta d'un fiato, senza tregue o finto buonismo. McQueen mette a nudo l'orribile realtà della schiavitù, toccando probabilmente ferite ancora aperte, per lo meno nell'animo americano (peraltro esprimendo il regista un dramma anche personale, essendo egli stesso discendente di schiavi).
Non è comunque mia intenzione soffermarmi in una lunga e faticosa trattazione circa la schiavitù (tema altamente complesso che merita attenzioni e trattazioni diverse e più accurate di questa). In questa sede infatti preferisco tessere le lodi di un ottimo film, magistralmente realizzato sia in termini di recitazione, che di location che di vestiario. Non c'è, a mio avviso, alcuno tra i numerosi premi conseguiti da "12 anni schiavo" che non sia stato meritato a pieni merito. Il prodotto messo insieme da McQueen è di una qualità superlativa anche sotto il profilo storico, mantenendosi infatti abbastanza fedele alla storia narrata nell'omonimo testo. Volendo essere pignoli l'unico neo sembra essere la scelta di Brad Pitt (nel film l'abolizionista canadese Samuel Bass), che sa troppo di espediente per pubblicizzare la pellicola. Infatti la recitazione del Pitt è ben lontana dai fasti di un Achille di Troy, per citare un esempio, nel quale la sua persona rendeva l'anima al personaggio interpretato. Parliamoci chiaro: in "12 anni schiavo" la parte di Pitt poteva essere interpretata da chiunque, per la pochezza di battute (ed anche di carattere) del personaggio (fondamentale tuttavia ai fini della trama).
Detto ciò, contrapponendosi ad un infelice Brad Pitt un fantastico Chiwetel Ejiofor, non si può che chiudere un occhio sul suddetto difetto ed assegnare a pieni voti il titolo di capolavoro all'ultima fatica di Steve McQueen Twelve Years a Slave, "12 anni schiavo", un film che farà parlare di sé per ancora molti anni, essendosi di diritto guadagnato, almeno per il sottoscritto, un posto in prima fila tra le migliori pellicole della filmografia del nuovo millennio.
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andrea alesci
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martedì 16 giugno 2015
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l'insopportabile sguardo della schiavitù
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Decide di mostrare il regista britannico Steve McQueen (Hunger, Shame), mostrare l’indicibile che scava dentro l’animo umano. Mostrare è il verbo che regge l’impianto di 12 anni schiavo, un predicato che s’avvinghia strenuamente alle sue radici etimologiche di monere: avvertire, ricordare. Ricordare con l’evidenza delle immagini quel che è stata la schiavitù dei neri.
Un colore della pelle che diventa contrasto razziale nell’America delle libertà da venire, di un Paese che attorno alla legge abolizionista di Lincoln edifica una delle più cruenti guerre civili della storia: americani che massacrano americani.
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Decide di mostrare il regista britannico Steve McQueen (Hunger, Shame), mostrare l’indicibile che scava dentro l’animo umano. Mostrare è il verbo che regge l’impianto di 12 anni schiavo, un predicato che s’avvinghia strenuamente alle sue radici etimologiche di monere: avvertire, ricordare. Ricordare con l’evidenza delle immagini quel che è stata la schiavitù dei neri.
Un colore della pelle che diventa contrasto razziale nell’America delle libertà da venire, di un Paese che attorno alla legge abolizionista di Lincoln edifica una delle più cruenti guerre civili della storia: americani che massacrano americani. Un quadro terribile che nasce nelle piantagioni di Alabama, Florida, Louisiana, Mississippi, Carolina del Sud, Texas, Georgia, là dove nella metà del XIX secolo i campi di cotone, tabacco, zucchero diventano forzosamente la casa di “negri”, di uomini acquistati, scambiati, impegnati da altri uomini come loro proprietà.
In quei campi dove si ritrova d’un tratto precipitato anche Solomon Northup (Chiwetel Ejiofor), uomo libero, musicista, sposato e con due figli, residente a Saratoga (New York), e negro. Rapito con l’inganno da due sedicenti opportunisti, marchiato da frustate che ne vogliono azzerare il passato e l’identità, mutato soltanto in Platt, schiavo negro proveniente dalla Georgia. Comincia così la storia vera di un uomo libero ridotto in schiavitù e raccontata nella sua eloquente brutalità dalle dettagliate inquadrature di Steve McQueen.
Scene esplicite nelle quali scorre l’abiezione verbale e fisica perpetrata dai padroni bianchi, qui sussunti nella sballata sadica figura di Edwin Epps (Michael Fassbender): con quel ghigno da pazzo e la sua ossessione per la giovane schiava Patsey (Lupita Nyong’o), ridotta allo sfinimento e continuamente vessata a causa delle crudeli gelosie della signora Epps (Sarah Paulson). E sarà proprio Platt a doverla frustare davanti a tutti su ordine del padrone Epps. Sarà lui a dover incidere sulla schiena nuda di Patsey l’insopportabile dolore della prevaricazione, l’inestinguibile peccato dell’uomo che violenta l’uomo e che il regista decide di rendere esplicito in un lancinante piano sequenza con lo scopo di svegliare tutti davanti all’abominio di chi si appropria di altri uomini e donne come fossero cose. Una volenza che per i sudisti era principio legittimato dalla legge, un comportamento istituzionalizzato che emerge in tutta la sua dissonanza nel serrato dialogo di Epps con il bracciante Bass (Brad Pitt), poi salvifico aiuto per Platt/Solomon nel riconquistare la sua libertà.
12 anni schiavo sa mostrarci i perversi meccanismi di questa malattia che ammorba l’America, scegliendo di farlo con la gravità dei pensieri distorti, con la ferocia delle azioni violente, con le atrocità subite da persone destinate soltanto a sopravvivere. Lo fa con grande potenza visiva, letteralmente portando lo spettatore fra quei campi macchiati di sangue, nelle atmosfere della Louisiana gravide d’ingiustizia; in quegli Stati avvolti dalla natura, solo elemento capace di donare attimi di una levità che ci arriva in dono nei controcampi tra primissimi piani e ondeggianti panoramiche alla Terrence Malick.
Camminiamo così ad occhi spalancati dentro un film che vuole renderci terribilmente consapevoli di quel che è stata (e di quel che in molti Paesi ancora è) la schiavitù: seguendo l’incredibile vera vicenda di Solomon Northup: uomo libero, per dodici anni sopravvissuto da schiavo, infine ritornato a vivere.
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