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Alla ricerca della meraviglia

To the Wonder e il cinema di poesia.
di Roy Menarini

In foto Ben Affleck e Olga Kurylenko in una scena di To the Wonder.
Olga Kurylenko (Olga Konstantinovna Kurylenko) (44 anni) 14 novembre 1979, Berdyansk (Ucraina) - Scorpione. Interpreta Marina nel film di Terrence Malick To the Wonder.

domenica 7 luglio 2013 - News

A un certo punto di To the Wonder, nel novero infinito di piccoli gesti apparentemente insignificanti che punteggiano la vita dei due amanti, la protagonista Marina (interpretata da Olga Kurylenko), gioca con il compagno Neil (Ben Affleck) e prova a lasciarsi cadere di spalle per vedere se lui la afferra. Lentamente, fidandosi sempre di più, abbandona completamente se stessa e si abbandona a corpo morto, sicura che lui la prenderà. E lui la prende. Quale metafora più riuscita del ruolo di noi spettatori nelle braccia di Malick? Inevitabilmente, alcuni dei presenti in sala non riusciranno mai a fidarsi, e dunque eviteranno di lasciarsi cadere. Altri, si abbandoneranno solo alla fine. Altri ancora, i cosiddetti "malickiani" (una razza di cinefili piena di gratitudine e attenzione verso il proprio maestro), sono già pronti fin dall'inizio a cascare ancora una volta tra le braccia del regista.
To the Wonder sarà anche un film minore, o un commento a margine di The Tree of Life (di cui contiene anche qualche sequenza tagliata), eppure continua - e anzi estremizza - l'idea di cinema ormai abbacinante di Malick. Considerare i suoi film "non narrativi" equivale a prendere un granchio colossale. A parte un finale enigmatico, il resto della storia di To the Wonder è del tutto comprensibile. Caso mai, è il modo che Malick ha ormai scelto per narrare che spiazza e intriga. Non i momenti essenziali, i nessi di causa ed effetto, le spiegazioni e i nodi scorsoi dell'esistenza, bensì gli istanti casuali, i momenti di passaggio, i segmenti intimi di una vita altrimenti fatta di incombenze e atti pratici. Ad alcuni irrita il fatto che i personaggi di Malick appaiano sempre in cerca di se stessi, perditempo, impegnati a camminarsi intorno o passeggiare per la casa. Il fatto, invece, è che Malick decide volontariamente di ignorare tutto quello che occupa nella nostra vita le porzioni più ovvie, e superficiali, e routinarie, per privilegiare invece una sorta di incessante discorso emotivo (reso con le voci fuori campo), e un'osservazione microscopica dell'incanto, della meraviglia del poetico nel quotidiano.
Ecco perché ne risulta una narrazione spappolata, priva di appigli, dove tocca allo spettatore riempire i vuoti, abbandonarsi (ancora) al flusso delle immagini reificate di Malick, unire i puntini per comprendere quello che sta accadendo ai personaggi. Si aggiunga la pratica aperta e quasi anarchica del cinema di questo regista - ore e ore di girato, montaggio infinito, attori tagliati all'ultimo, interi capitoli del film eliminati (basta vedere il poco che è rimasto del personaggio di Rachel McAdams) - e si capisce lo sconcerto sempre più acuto di parte della critica, che a Venezia 2012 ha accolto To the Wonder con scetticismo.
In verità, poi, To the Wonder possiede, oltre allo slancio lirico, anche uno sguardo antropologico, come dimostrano le bellissime sequenze della parata cittadina, degli allenamenti sportivi e dei contadini dell'Oklahoma, oltre che i ritratti di infelici, sofferenti e malati che il terzo personaggio del film, il sacerdote interpretato da Javier Bardem, visita e accudisce. Qui, in uno strano universo cinematografico dove il melodramma alla Delmer Daves incontra i documentari di Frederick Wiseman, nasce un cinema contemporaneo nuovo e imprevedibile, molecolare e disincarnato, fallibile ma irresistibile, insomma un cinema di poesia.

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