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My Fair Lady: un altro remake ambizioso

Per Keira Knightley una sfida impossibile: rifare Audrey.
di Pino Farinotti


lunedì 2 novembre 2009 - Focus

Remake
Il regista Joe Wright è impegnato con un titolo che davvero non passa inosservato, My Fair Lady, il remake di quell'opera da otto Oscar, che prima di diventare un titolo assoluto del cinema lo era stato del teatro. E prima, della letteratura. Nella parte della protagonista Eliza Doolittle, Wright ha scelto la sua Keira Knightley, che aveva già diretto in Orgoglio e pregiudizio e in Espiazione. Va detto subito che Keira è adatta alla parte, forse la più adatta. Inglese 24enne, ha già una storia di attrice molto importante, e completa, in ruoli diversi, spesso in costume. La Knightley, dopo aver assunto alla perfezione i personaggi complessi e dissimili di scrittori come Ian McEwan (Espiazione) e soprattutto Jane Austen (Orgoglio e pregiudizio) è stata la piratessa della trilogia "Caraibi" e l'infelice lady Georgiana Spencer in La Duchessa. Dunque carte in regola per Keira. Solo che... non sono in regola, perché il personaggio che la giovane emergente dovrà affrontare, Audrey Hepburn, è inaffrontabile.

Garanzia
L'era recente del cinema ha sposato i remake, per molte ragioni, a cominciare dalla garanzia economica che può dare una storia accreditata, testata. Magari titoli da leggenda. Che poi la riproposta non possa che essere deludente, sta nelle logiche, della cultura, della memoria, del mito, dell'affezione. Gus Van Sant, per il suo Psycho ha rifatto sequenza dopo sequenza lo stesso film di Hitchcock, ha, con intelligenza, evitato il confronto. E Vince Vaughn, nei panni di Norman Bates è stato corretto, ma Anthony Perkins era Norman, era l'inquietante e magnifico psicopatico. Il confronto quasi impossibile. In Women la competizione fra modelli è meno difficile. Nell'edizione del '39 la cattiva era Joan Crawford e la buona Norma Shearer, certo grandi star, ma... non erano la Hepburn, e dunque le loro omologhe del 2008, Eva Mendes e Meg Ryan, potevano anche affrontarle senza perdite gravi. Più difficile è stato il compito di Gwyneth Paltrow, che in Delitto perfetto, ha dovuto vedersela con Grace Kelly. Mentre Julia Ormond, che ha cercato di rievocare Sabrina, ne è uscita distrutta: davvero sembrava la governante di Audrey.

Mistero
La Hepburn è un modello particolare, c'è del mistero. Si è accreditata come un unicum perenne, fra le "donne del secolo" è la più presente e trasversale, insieme a Marilyn. Altre sono state sorpassate, che avevano dettato esempi e identificazione, come Garbo e Dietrich, come Hayworth. E per Audrey ci sono alcuni paradossi che andrebbero letti. Premesso che quando si tratta di cinema non tutto può essere letto, interpretato, definito, perchè il cinema si concede quella zona franca che non può essere letta, interpretata, definita, appunto. E allora il primo mistero e quesito è: perché è "esempio-sogno-modello del secolo" una donna del tutto priva di erotismo e di sensualità? Per eleganza, per classe, naturalmente. Il rimando immediato è al suo sarto, Givenchy. I due si sono reciprocamente identificati. Si può cercare qualche altro segnale: il sorriso, la figura come un disegno astratto, la bellezza del viso; e poi l'ingenuità, quegli occhi da Alice. Poi naturalmente c'è la chimica cinematografica col mistero detto sopra e con quell'incantesimo irraggiungibile e incomprensibile. E c'è un altro aggettivo: regale. Quello che l'ha identificata, poco più che ventenne nella parte della principessa, appunto, in Vacanze romane. Le diede immagine e popolarità, e l'Oscar. Gli uffici dell'anagrafe di quel 1954 dovettero registrare, anche in Italia, migliaia di "Sabrina". Ma c'è di più, qualcosa che possiamo chiamare fragilità, che innesca un istinto attivo come la protezione. E poche forze possono competere con quel sentimento. E i film con Audrey lo spiegano molto bene. I suoi grandi partner erano per lo più dei "papà". Gente con una trentina di anni più di lei. E tutti a proteggerla. Come Humphrey Bogart (Sabrina), Gary Cooper (Arianna), Fred Astaire (Cenerentola a Parigi), Cary Grant (Sciarada). Ed è ormai un dato di fatto che tutto questo può compensare, anzi, compensa, la sessualità che manca: Audrey non avrà stuzzicato – come Marilyn o Brigitte - le fantasie dell'intero arco maschile, dall'adolescenza alla senilità, ma era una irresistibile, fragile, principessa. E tanto bastava, tanto basta. Keira Knightley ha molte qualità, alcune anche fra quelle dette sopra. Ma... non è Audrey Hepburn. E non lo sarà.

Sangue blu
Naturalmente questo non significa che il remake di My Fair Lady non sia un'iniziativa meritoria. Anche quel titolo ha... sangue blu. La derivazione è una commedia del 1914 di George Bernard Shaw. È la vicenda di un professore di fonetica che scommette di trasformare in una lady una fioraia rozza e ignorante. Successo in tutto il mondo e in tutti i tempi. Nel 1956 la pièce divenne un musical con parole di Alan Jay Lerner e musica di Frederic Loewe. Il titolo stabilì un vero record del mondo con 2.700 repliche a Broadway e 2.300 a Londra. La protagonista era Julie Andrews, buon appeal e ottima cantante. Per l'inevitabile passo successivo, il film, la Warner affidò la regia a George Cukor, grande garante. Cukor non si fidava di Julie Andrews, voleva, a sua volta essere garantito, e così chiamò la sua amica Audrey Hepburn. La diva non sapeva cantare e così venne doppiata. Nell'edizione italiana venne consumato il crimine grottesco di doppiare anche le canzoni. Fra gli Oscar vinti dal film c'erano i più importanti: al film e alla regia. L'istantanea che rimanda Audrey con quell'abito spumeggiante e il cappello immenso – modelli di Cecil Beaton, Oscar a sua volta - e quella riflessa nella vetrina di Tiffany, fasciata dal suo Givenchy, sono immagini imprescindibili di tutto il cinema. Alla parabola naturale del titolo, pièce-musical-film, non poteva mancare il remake, puntualmente arrivato. Keira non è Audrey e Wright non è Cukor, ma il ritorno di My Fair Lady è il ritorno di un incanto magari minore ma sempre di un incanto. E dunque, perché no?

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