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Claudio Giovannesi, tra realtà, finzione e Pasolini

Il regista in concorso a Roma con Alì ha gli occhi azzurri.
di Simona Previti

In foto Stefano Rabatti e Nader Sarhan in una scena del film Alì ha gli occhi azzurri.
Stefano Rabatti . Nel film di Claudio Giovannesi Alì ha gli occhi azzurri.

lunedì 5 novembre 2012 - Incontri

Alì ha gli occhi azzurri è il secondo lungometraggio di Claudio Giovannesi, giovane autore che si era già fatto notare dalla critica per il suo documentario Fratelli d'Italia (vincitore come miglior documentario al Festival di Roma nel 2009). Il film, selezionato in concorso al prossimo Festival del cinema di Roma, sembra ripartire proprio dal quel doc, e dal quel personaggio così forte che aveva catturato l'occhio della sua telecamera: Nader, 16 anni, egiziano, condivide con Stefano suo coetaneo e con Brigitte, la sua ragazza, italiani entrambi, contestazione ai valori della famiglia e vita per strada. Figlio di immigrati che già da vent'anni vivono in Italia, Nader rappresenta quella seconda generazione che dovrebbe essere ormai perfettamente integrata nel tessuto sociale, ed invece vive stretta fra due emarginazioni, due muri di silenzio ed incomunicabilità: la propria famiglia da un lato, non così integrata con la cultura italiana e non così disposta a capire la diversa sensibilità dei giovani che crescono in contatto con altre culture; e dall'altro lato la scuola, non sempre adatta ad affrontare i problemi della multiculturalità. Un altro film sull'immigrazione dunque, ma anche sull'adolescenza. Il titolo, che incuriosisce non poco, richiama una ben nota poesia di Pasolini.

Come nasce il progetto di Alì ha gli occhi azzurri, rispetto al tuo primo film, il documentario Fratelli d'Italia? C'è una continuità tematica, oltre che chiaramente per la scelta del protagonista che è infatti sempre Nader Sarhan, ma anche una continuità estetica nel modo di girare ed in generale per tutte le scelte di regia?
Alì ha gli occhi azzurri nasce dal desiderio di approfondire il mio sguardo su questo attore, anzi su questo non-attore, e sul suo personaggio, appunto già protagonista di Fratelli d'Italia, come se fosse una sorta di continuazione di quell'episodio. Ho sentito di voler ritornare su quel volto, di filmarlo ancora e, visto il suo potenziale recitativo che si evince già nel documentario, dargli più spazio. Lo spazio narrativo di un lungometraggio, come si suole dire di "finzione". Anche se l'estetica resta quella del realismo, a cavallo fra il materiale vivo di eventi, luoghi e situazioni reali, e una sceneggiatura più costruita rispetto ad un doc tout court. Il modo di filmare segue un po' sempre lo stesso principio estetico che stava a monte del documentario: molti piani sequenza che pedinano Nader e Stefano, i due protagonisti, quindi una prossimità ai volti, ai corpi, come se la macchina da presa li pedinasse. Come se stesse sempre un passo più indietro rispetto a loro. E certo questo è stato, per le riprese, un grande lavoro di macchina, molto difficile e faticoso.

Muovendoti quindi a cavallo fra realismo e "finzione", qual è stato il lavoro sulla musica nel film? Ha una grande importanza come in Fratelli d'Italia?
Le scelte sono state diverse in questo caso. Perché Fratelli d'Italia era un film più di montaggio, dove la musica poteva quindi avere un'importanza più centrale, fare quasi da commento alle storie dei ragazzi. Musica e montaggio sono come un commento esterno al materiale crudo, in presa diretta. In Alì ha gli occhi azzurri invece non ho voluto un vero commento musicale. Se non per l'ultima scena, e qualche altro breve momento del film perché non volevo aggiungere retorica al materiale. Non volevo che si sentisse "il cinema", "la macchina cinema". Volevo che fosse tutto il più realistico possibile. Senza quasi mediazione. È chiaro che in questo caso lo sguardo del regista deve quasi sparire, o comunque essere più trasparente e sempre un passo indietro rispetto alla storia che si dà da sola.

E il lavoro sulla fotografia? Ti sei avvalso di un grande nome come Ciprì. C'è una fotografia marcata, come in genere è la sua?
No, anche la luce doveva essere più realistica possibile. Anche per questo aspetto volevo che non si percepisse eccessivamente "il cinema", la macchina che li stava riprendendo. Non ho usato neanche ciak. C'è una fotografia molto naturale. A volte anche pochissima luce.

Hai concepito tutto il film in fase di sceneggiatura o hai lasciato spazio all'improvvisazione? Al lavoro sugli attori?
Il punto di partenza di tutto è stato il materiale umano. I personaggi. Alì-Nader soprattutto. Quindi anche il lavoro sulla sceneggiatura: Nader e Stefano sono stati coinvolti da me e Filippo Gravino - lo sceneggiatore - nel lavoro di scrittura. I dialoghi sono stati concepiti pensando a loro, magari erano cose che avevano detto, battute che avevano pronunciato.

Il tema resta quello della multiculturalità, e della prima generazione di italiani figli di immigrati. Sempre pensando a Fratelli d'Italia, il tuo sguardo su scuola e famiglia sembra non lasciare speranza. Li ritrai come luoghi dove si crea emarginazione, razzismo e non comunicabilità.
Si, il tema è quello della multiculturalità, come già nel mio documentario. Ma anche il tema dell'adolescenza. Penso che la scuola non riesca sempre ad affrontare i problemi oggi della multiculturalità. Ad esempio in Alì ha gli occhi azzurri abbiamo girato una scena sulla presenza del crocifisso nelle aule. Questa sarà la nuova Italia, il suo nuovo tessuto sociale, e ci troviamo spesso impreparati ad affrontare l'integrazione dei nuovi italiani.

Come hai lavorato sui luoghi? Qual è stato il criterio di scelta?
Anche per questo siamo partiti dai personaggi. Abbiamo scelto un perimetro entro cui dovevano muoversi: Ostia, Acilia, Fiumicino, Tor di Valle. Anche la scuola che frequentano i protagonisti fa parte di quel territorio. Per me era importante la corrispondenza fra la storia e i luoghi. Non mi andava che la scenografia fosse dettata da altre logiche. Tutto doveva svolgersi lì. Con quei personaggi. Così, anche le comparse sono gli studenti della scuola.

Alì ha gli occhi azzurri è un chiaro riferimento al titolo di una poesia-profezia di Pasolini. Qual è il tuo rapporto con questo grande autore?
Intanto, una curiosità divertente: Nader mette d'avvero delle lentine azzurre per modificare il colore degli occhi. Questo si vede anche in alcuni primissimi piani del precedente Fratelli d'Italia.
Certo Pasolini sta dietro questo titolo. La stessa "profezia" del '62 sulla società multiculturale, sull'avvento delle popolazioni dell'Africa, alla quale certo Pasolini dava un valore rivoluzionario. Mi è sembrato che questa poesia, e questo titolo, potesse raccontare l'oggi, l'Italia dell'immigrazione che stiamo conoscendo.

Certo, Pasolini ha avuto una visione lunga su tanti aspetti della società contemporanea. Cosa pensi si possa ritrovare oggi di "pasoliniano", a Roma, nei luoghi dove un tempo lui aveva scovato un'umanità più pura e ingenua, per questo quindi di grande bellezza, quasi sacra. Questi ragazzi, Alì, Stefano , per certi aspetti possono essere i nuovi volti pasoliniani? O quella dimensione nella sua Roma è del tutto perduta?
Con le dovute differenze, ho molto pensato per il film a Ragazzi di vita. A come può essere oggi quel girovagare per le borgate che Pasolini rappresentò così bene in pagine di grande poesia. Pasolini resta per me un autore di riferimento.
Intanto due grandi differenze: questi ragazzi di vita - Alì, Stefano - sono sicuramente ormai contaminati dalla società dei consumi e dalle mode, e non sono più così tanto puri e innocenti come lo erano i ragazzi pasoliniani. Poi certo quelle borgate ormai sono state inglobate nella metropoli espansa. Diciamo che quelli che negli anni '50 erano i "Ragazzi di vita" di Pasolini oggi sono anche i figli dell'immigrazione, i nuovi italiani, che arrivano dall'Africa, dall'Europa dell'est, dal Sud America e dalla Cina.

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