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Gus Van Sant, felicemente fuori concorso

Il regista americano presenta a Cannes il suo Restless.
di Ilaria Ravarino


venerdì 13 maggio 2011 - Incontri

Accoglienza in tono minore per Gus Van Sant, che in una sala conferenze piena per metà ha presentato a Cannes il suo Restless, uno dei film più apprezzati nei primi giorni di kermesse nonostante la collocazione (ingiusta, secondo molti) fuori dal concorso. In ritardo di 24 ore sulla tabella di marcia, ufficialmente frenato da un ritardo aereo (ma ufficiosamente trattenuto in America per il debutto della sua miniserie Boss), Van Sant non è arrivato in tempo per godere del calore tributato da pubblico e stampa al suo film, accontentandosi di un lungo applauso che lo ha salutato all’arrivo. Con lui anche una luminosa Bryce Dallas Howard, coproduttrice del progetto, la burtoniana Mia Wasikowska e il giovane Henry Hopper, silenzioso ed emozionatissimo figlio d’arte al suo secondo, e più importante, film.
Perché anche se non lo dice nessuno, Restless ha una dedica pesante nei titoli di coda: quella all’«ammirato regista e artista» Dennis Hopper, morto appena un anno fa.

Restless non è in concorso. Le dispiace?
Van Sant: No, per me è comunque una grande felicità far parte di questo Festival: quando ho iniziato la mia carriera non avrei mai potuto immaginare che un giorno sarei finito in una sezione prestigiosa come "Un certain regard". Sinceramente credo che il solo stare a Cannes sia un privilegio: quando venni con To die for, nel ’95, avevo solo una proiezione di gala ma fu ugualmente fantastico. La competizione è divertente, se sembra più importante delle altre sezioni è solo per via della pressione della stampa. Sono i giornalisti a dargli tutta quell’importanza, trasformando la selezione ufficiale in una specie di sport competitivo. Direi che sono felice di essere fuori dal concorso, partecipare mi avrebbe messo una certa ansia.

Il suo film ha qualcosa del cinema francese. È un omaggio a Godard?
Van Sant: Sì, ma involontario. Me ne sono accorto una volta finito il film: effettivamente, in questa storia d’amore, c’è molto cinema francese.

Come ha lavorato sul set con i suoi attori?
Van Sant: Ho usato la tecnica che ho imparato lavorando a lungo con i non professionisti: spiego tutto quel che succede davanti e dietro alla scena, parlo con le persone, le coinvolgo, cerco di non far sembrare il set come lo studio di un dentista. E ho un segreto, lo stesso che usa Eastwood: per costruire l’atmosfera migliore il trucco è rimanere sempre calmi, rilassati, soprattutto non pretendere che ogni persona stia là ad aspettare che il regista schiocchi le dita. Per me è un bel lavoro di recitazione, visto che sotto stress sono una persona assolutamente non rilassata.

Quale dei suoi film sente più vicino a Restless?
Van Sant: In generale i miei personaggi sono sempre problematici, e in questo c’è un’affinità con tutti i miei film. Forse Restless, nelle sue atmosfere rarefatte, ha qualcosa che ricorda Will Hunting. Quello fu per me un film difficile, il primo con cui affrontai il mainstream e il primo con una sceneggiatura superpositiva. Di solito i miei lavori sono decisamente più pessimisti, ma mi piace mettermi alla prova.

Rispetto alla sua filmografia precedente, Restless pare una pellicola classica.
Van Sant: la camera lavora diversamente dal solito, non segue i personaggi e non è a mano. Ma la cosa più classica di Restless sono i dialoghi, che nel cinema americano servono solo a far avanzare la storia e qui, invece, provano ad approfondire i personaggi.

Perché ha rinunciato al finale aperto?
Van Sant: I miei film precedenti trattavano di casi di cronaca, questioni giudiziarie, o come nel caso di Last Days gli ultimi giorni di vita di una star planetaria. Storie su cui era stato scritto tanto, indagini su cui il cinema non poteva entrare a fondo come aveva fatto il giornalismo. Il cinema poteva al massimo porre delle domande allo spettatore, sollevare interrogativi di fronte a quesiti assoluti e insoluti. Il caso di Restless è diverso: è una storia d’amore, non un’indagine. Il finale non è aperto, lo decidono i protagonisti.

Bryce, perché ha deciso di produrre questo film?
Dallas Howard: lo sceneggiatore di Restless era uno dei miei migliori amici all’università. Quando mi ha fatto leggere lo script, la sua storia ha cominciato a ossessionarmi. Ci ho pensato per due anni e appena ho avuto i mezzi per farne un film, non ho esitato un istante: non è stato frutto di una strategia, ma di vera passione. Mio padre diceva: fai pure qualcosa che non sia cinema, basta che tu lo faccia bene. Ho fatto leggere a papà lo script, l’ho coinvolto nella produzione e sono molto soddisfatta del risultato. Gus era il nome in cima alla lista, speravo tanto di averlo come regista... e ce l’ho fatta.

E come si è trovata a gestire una produzione?
Dallas Howard: Ho ancora molto da imparare, ma quel che ho capito di questo mestiere è quanto sia di vitale importanza sapersi prendere le proprie responsabilità e portarle fino in fondo.

Come si lavora sul set con Van Sant?
Wasikowska: Benissimo, perché ho avuto la sensazione di essere coinvolta fin dall’inizio nel progetto. Gus è molto coinvolgente e collaborativo e i suoi set sono davvero calmi, ti fanno sentire libera ma anche protetta.

Come ha affrontato un personaggio così vicino alla morte?
Wasikowska: Quando ho letto lo script l’ho amato subito. Era il ruolo di una donna con tante sfaccettature, forte e fragile insieme: una ragazza che, anche se sta morendo, è in grado di apprezzare le piccole gioie della vita. Più che deprimente, è uno dei ruoli più belli che si possano incontrare in una carriera.

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