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La politica degli autori: James Marsh

Con Project Nim, l'autore riesce nel miracolo di rendere narrativa la scienza.
di Mauro Gervasini

James Marsh (61 anni) 30 aprile 1963, Truro (Gran Bretagna) - Toro. Regista del film Project Nim.

martedì 6 marzo 2012 - Approfondimenti

Lo splendore del vero è ossessione di un mucchio selvaggio di cineasti, ancorati al concetto di realtà e alle migliori modalità per raccontarla. Non la vogliono fotografare, fanno altro. Elaborano, creano, sezionano, mitizzano senza mai mistificare. Dai registi teorici allievi di André Bazin alle varie vagues che in giro per il mondo hanno codificato la modernità della settima arte (sulle tracce di Rossellini), il dilemma tra documentario e fiction quale miglior percorso per arrivare al vero è stato sempre considerato un falso problema. James Marsh, inglese, classe 1963, incarna da una quindicina d'anni il superamento definitivo di questo nodo teorico: storie inventate basate su fonti documentali si susseguono nella sua filmografia a rigorosi documentari che non disdegnano la retorica del cinema per coinvolgere lo spettatore.

Con Project Nim (2010), visibile fino al 18 marzo in streaming su MYMOVIESLIVE! il regista compie una specie di miracolo rendendo narrativa la scienza. Il film racconta di un esperimento etologico fallito, ma eccezionale: il tentativo di Herbert Terrace, ricercatore della Columbia University, di dimostrare come gli scimpanzé possano essere protagonisti di un processo di apprendimento simile al nostro. Il presupposto è che il loro DNA e quello umano coincidono per il 98,7%. La tesi da confutare, invece, è quella di Noam Chomsky, insigne linguista prima di essere controverso scienziato politico, secondo il quale solo dell'uomo sarebbero i codici linguistici. Con l'appassionante avventura di Nim Chimpsky, questo il nome dello scimpanzé protagonista, si cercherà di dimostrare il contrario.

Sei gradi di separazione distanziano un lavoro come Project Nim, oppure Man on Wire (2008), film sul funambolo francese Philippe Petit vincitore dell'Oscar come miglior documentario, da Shadow Dancer, presentato qualche settimana fa alla Berlinale. Apparentemente si tratta di operazioni diversissime, "scientifiche" le prime, "fantasiosa" quest'ultima, che racconta di una donna irlandese, militante dell'Ira, costretta a fare la spia per l'MI5 (l'Fbi del Regno Unito) per salvare il figlio. Una trama, attori professionisti, la meticolosa ricostruzione di un'epoca (gli anni '90). Proprio la maniacalità dell'evocazione di un ambiente e della sua storia marcano l'origine comune dei tre film. Che è sempre il rispetto del vero. Attraverso una ricerca fotografica molto particolare, in Shadow Dancer Marsh ricrea la luce della memoria, il clima d'angoscia conseguente alla recrudescenza dei Troubles nordirlandesi in modo che lo spettatore abbia un'idea chiara di quanto la finzione rispecchi circostanze reali.

Stesso discorso per un'altra importante e non dissimile operazione di fiction, la seconda puntata della saga Red Riding Quartet, intitolata 1980, originariamente realizzata per l'emittente britannica Channel 4 poi uscita in sala sia in Uk che negli Usa. Una trilogia importante anche da un punto di vista estetico (ognuno degli episodi è realizzato con un formato diverso: 35 mm nel caso di 1980) ispirata a un'opera letteraria monumentale (sulla carta una quadrilogia) di David Peace. Il pretesto è la storia dello squartatore dello Yorkshire e delle controverse indagini che cercarono di individuarlo, ma il senso dell'operazione è la perlustrazione di uno dei momenti di mutamento sociale più drammatici della storia britannica, dove si mischiano con il rigore documentaristico tipico del regista (e dello scrittore) ricordi minimali e immaginario collettivo (compresa la musica: all'evocazione della vicenda non sono estranei i Joy Division). Nella carriera di Marsh anche qualche passo falso, come The King con Gael Garcia Bernal e William Hurt (2007), un po' forzato nel voler inseguire il cuore nero del gotico sudista americano. Tuttavia è anche in questo caso singolare lo sguardo mimetico del cineasta, mai superficiale e sempre militante.

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