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Cesare Pavese, il grande scrittore "ucciso" dal cinema

Il 27 agosto del 1950 moriva suicida in una stanza d'albergo.
di Pino Farinotti

In foto lo scrittore Cesare Pavese.

sabato 27 agosto 2011 - Focus

Ho già scritto della Mostra di Venezia e di Fernanda Pivano: Teresa Marchesi presenterà il suo film Pivano Blues – Sulla strada di Nanda. Nel cast molti amici della grande scrittrice-traduttrice, come Vasco Rossi che legge “Urlo”, il canto di Ginsberg, recuperato recentemente dal film di Rob Epstein. E poi ancora Guccini e Jovanotti, che chiude il suo pezzo col rap “Nanda, Nanda, Nanda”. A Venezia arriverà anche Patti Smith, icona del rock. Patti dedica a Fernanda la canzone “Wing”. Non potrà esserci il suo grande amore Fabrizio De André, che musicò alcune liriche dello Spoon River, di Lee Masters, da lei tradotto. E mancherà qualcun altro, un testimone assoluto della nostra cultura, Cesare Pavese, del quale la giovanissima Fernanda era grande amica. Dividevano la passione per la cultura americana, anche Pavese aveva tradotto alcuni grandi romanzi di quella letteratura. Esistono lettere che testimoniano del rapporto, umano e culturale, fra l’allieva e il maestro. Di recente il Corriere ha dedicato vasto spazio a un carteggio fra Pavese e Constance Dowling, l’amore infelice, forse tragico dello scrittore. Pavese “torna” oggi perché proprio il 27 agosto del ’50, si tolse la vita.

Cena
Il capodanno di quell’anno a una cena fra amici, a Roma, Cesare conobbe Constance, attrice americana, non proprio una stella, sorella di Doris, che invece ha lasciato segni importanti, in una grande classico come Giorni perduti di Wilder, ed era stata l’antagonista “dark” di Silvana Mangano in Riso amaro. L’attrice lo interessò, ma fu un successivo incontro, a Cervinia, a far scattare qualcosa. Pavese non si sentiva all’altezza, era un personaggio improprio rispetto al cinema, e a quella fascia, era “solo” un magnifico intellettuale. Constance se ne sentì lusingata, ma non di più. E Cesare cominciò a costruirsi una specie di amore, le scrisse parole bellissime, e come poteva essere altrimenti, ma Constance non corrispondeva, almeno come lui avrebbe voluto. E poi Pavese non era Arthur Miller, anche lui grande scrittore ma “l’uomo più erotico che abbia mai conosciuto” come disse Marilyn, che… se ne intendeva. Con la Dowling si espose completamente. In una lettera di marzo le scrisse “… Ti amo cara Connie, di questa parola so tutto il peso, l’orrore e la meraviglia, eppure te la dico, quasi con tranquillità. L’ho usata così poco, e così male che è come nuova per me.”
Era dunque arrivato il punto di non ritorno per Cesare. L’ultima vicenda, riferita dal grande amico di Pavese, Pinolo Scaglione, è grave, quasi… mortale. Pavese gli disse: “…è scappata di notte dal mio letto nell’albergo di Roma ed è andata nel letto di un altro.” L’”altro” era Andrea Checchi, attore, ottimo “carattere”, parti da villain e anche da cattivo. Davvero non ci voleva, la fragilità generale dello scrittore, la sua personalità complessa, introversa, il suo dolore esistenziale già pericoloso, subirono un colpo decisivo.
Del rapporto di Pavese col cinema ho scritto qualche tempo fa. L’occasione era la pubblicazione di un inedito con gli scritti “cinematografici” dell’autore. Da quel pezzo emerge davvero come il cinema lo abbia probabilmente “ucciso”.

Il cinema
“….Einaudi pubblica il volume Il serpente e la colomba, curato da Mariarosa Masoero, dove vengono raccolti i soggetti cinematografici di Cesare Pavese. Lo scrittore era un innamorato della cultura americana, e lo dichiara esplicitamente in un suo saggio: “…quella americana è una civiltà greve di tutto il passato del mondo e insieme giovane e innocente, una sorta di laboratorio dove si cercava un modo di essere alternativo, moderno, che la situazione italiana non permetteva: da qui la nascita del “mito americano”. E ci mise del suo, con talento e passione traducendo alcuni degli scrittori fondamentali di quella letteratura, come Melville ("Moby Dick"), Dos Passos ("42° parallelo") e Steinbeck ("Uomini e topi"), fra gli altri. Essere innamorati della cultura americana significa, in automatico, esserlo di Hollywood. E Pavese lo era. Cercò di essere accettato come autore da cinema, ma non fu fortunato, o, probabilmente, non aveva quell’attitudine. Che lo scrittore considerasse il cinema qualcosa di molto serio, arte e non evasione&spettacolo, emerge da una risposta che diede a un cronista che lo intervistava. Gli venne chiesto: “quali sono i suoi narratori preferiti?”, rispose “Thomas Mann e Vittorio De Sica”. Parole che dette da uno come lui, di fatto contribuivano a legittimare il cinema verso l’alto, verso la letteratura, appunto. Pavese avrebbe fatto carte false per vedere i suoi libri diventare film, così com’era successo a due scrittori che amava, Hemingway e Fitzgerald, più grandi di lui solo di una decina di anni. Ma i suoi libri non possedevano la cifra del cinema, per molte ragioni, a cominciare dalla qualità della scrittura, che era letteratura vera, non solo racconto. Era introspezione più che azione… ….Si tratta sempre di classifiche arbitrarie e personali naturalmente, ma se "La luna e i falò" non è il più grande romanzo italiano del ‘900, certamente è uno dei fondamentali. Mai diventato film, vero almeno. Fa parte di un filmato dal titolo Dalla nube alla resistenza, che vive sulla lettura di testi misti e raccoglie anche brani dei "Dialoghi con Leucò". Così come il cinema aveva ‘ucciso’ Scott Fitzgerald, che a Hollywood si era visto bocciare spietatamente tutti i suoi tentativi (“non possiamo fotografare gli aggettivi” gli disse Mayer, licenziandolo), il cinema uccise Pavese seppure in modo diverso.

Il suicidio
Il primo gennaio del ’50, scrisse sul suo diario: “… anche il dolore, il suicidio, facevano vita, stupore, tensione. In fondo ai grandi periodi hai sempre sentito tentazioni suicide. Ti eri abbandonato. Ti eri spogliato dell'armatura. Eri ragazzo. L'idea del suicidio era una protesta di vita. Che morte non voler più morire". Gran brutto segnale. E il 27 agosto di quello stesso anno Pavese occupò una camera dell’Hotel Roma di Torino e assunse sedici bustine di sonnifero. Sul comodino lasciò un biglietto con scritto: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.” In uno dei soggetti riportati nel libro, "Suicidarsi è un vizio", Pavese racconta, con lucidità mortale, di Natalia, trovata in fin di vita in un albergo di quart’ordine. Ha tentato il suicidio, è stata salvata. Forse voleva solo essere salvata. Ma Pavese no, faceva sul serio. Col cinema qualcosa è successo, non molto. Nel 1955 Antonioni dirigeva Le amiche, con un cast cospicuo, Eleonora Rossi Drago, Valentina Cortese, Yvonne Furneaux e Gabriele Ferzetti. Un gruppo di amiche gravitano intorno a una sartoria di moda. Una, “alla Pavese”, si suicida. Non è un film memorabile comunque trattasi di opera di un grande scrittore nelle mani di un grande regista: qualcosa significa. È il miglior tributo del cinema a Cesare Pavese. Nel 1985 Vittorio Cottafavi diresse, per la televisione, Il diavolo sulla colline, uno dei tre racconti del volume "La bella estate". Storia di tre amici diversi per cultura e censo, che si confrontano mentre incombe, forse, la guerra. Nel 1935 Pavese venne arrestato per antifascismo e inviato al confino a Brancaleone in Calabria. Nel ‘92 la Regione finanziò il film televisivo Prima che il gallo canti, romanzo quasi autobiografico dello scrittore che raccontava, appunto, il periodo del confino. Il regista era Mario Foglietti, l’interprete Giuseppe Pambieri. Un’opera dignitosa, niente di più. La letteratura e il cinema: arti a volte complementari, più spesso in contrasto. La combinazione non aveva giovato al grande scrittore piemontese. I titoli diventati film erano una riparazione inadeguata. Postuma per di più.

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