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Clint Eastwood: il grande "trasversale"

J. Egdar, l'ennesimo titolo "obbligatorio".
di Pino Farinotti

In foto Leonardo DiCaprio e Clint Eastwood sul set di J. Edgar.
Leonardo DiCaprio (Leonardo Wilhelm DiCaprio) (49 anni) 11 novembre 1974, Los Angeles (California - USA) - Scorpione. Interpreta J. Edgar Hoover nel film di Clint Eastwood J. Edgar.

lunedì 9 gennaio 2012 - Focus

Nella fase recente della sua carriera Clint Eastwood si è assunto argomenti grandi e responsabilità alte. Ed è sempre intervenuto con grande potenza. I suoi film sospendono il resto del cinema. Arriva un "Eastwood" ed è obbligatorio prestare attenzione. Soprattutto, qualunque cosa dica, Eastwood ha ragione. Non è stato davvero semplice acquisire credibilità, autorevolezza e franchigia quasi assolute. C'è dietro un lavoro di mezzo secolo che gli ha permesso, oltre a tutto il resto, di sottrarsi alle definizioni. Clint non è un repubblicano riformato e neppure un democratico-figliol-prodigo. È semplicemente un americano che dice la sua a ragion veduta e senza pregiudizi, un trasversale non schierato. Certo, in sintesi immediata, scorrendo velocemente il tempo, emergono le differenze del percorso. Il Biondo e Callaghan, giustizieri nel west e nelle metropoli, non si ponevano tanti problemi nell'ammazzare i cattivi, avocavano a sé tutti i ruoli dell'azione giudiziaria e della giustizia, erano scarsamente garanti. Patrioti repubblicani alla Wayne. Poi l'autore Eastwood ha intuito che vento e orizzonte cambiavano, ha cercato di leggere, capire e approfondire e poi, lentamente, con l'applicazione che certo in parte gli aveva trasmesso Leone, si è schierato sul fronte progressista della cultura prevalente. Se non lo avesse fatto sarebbe rimasto un brillante outsider isolato. Invece ha trovato il suo stile e lo ha imposto.

Destra
Attaccando, "disinnescando" Egdar Hoover, il regista ha colpito quell'America patriottica e cinica, quella destra tetragona e pericolosa che in nome della difesa della civiltà, del sistema e della sicurezza americana, compiva ogni sorta di prevaricazioni, e di delitti. Un tempo certo non era così, Hoover era un eroe, quando c'erano "vento e orizzonti" diversi. La parabola individuale di Eastwood, più veloce del "tempo storico", può essere rappresentata, efficacemente, dalle guerre. E da come il cinema le ha rappresentate. Riproduco lo stralcio del mio libro "Storie di cinema".

"Nel '41, entrata in guerra l'America affrontò, e sconfisse, tre regimi in una volta sola, fascismo, nazismo e imperialismo. Non era... robetta. Successivamente il cinema si mosse in grande stile e naturalmente ci mise del suo dispensando mito e spettacolo, e l'enfasi della predestinazione. Le centinaia di film coi marines giusti e invincibili, Iwo Jima, Pearl Harbor e le Filippine, Dunkerque, le portaerei e i caccia, Londra e la Normandia: il cinema riscrisse storia e memoria. Hollywood volle dire la sua anche su Hiroshima. Anche se con prudenza. Per decenni il pensiero era "non si poteva fare altrimenti". Poi il "pensiero" è stato ridiscusso. Certo, c'era di mezzo il tradimento dei giapponesi a Pearl Harbor. Gli americani se lo erano legato al dito. Tuttavia l'indicazione contemporanea è diversa. Oltre 200.000 morti civili e incolpevoli dicono che forse si poteva fare altrimenti. Il comandante del B 29 che sganciò quella bomba era Paul Tibbets. È morto nel 2007 a 92 anni. Già da tempo aveva detto a un suo amico, Gerry Newhouse, di non volere né un funerale vistoso né una lapide sulla sua tomba. Temeva che si trasformasse in luogo per manifestazioni di protesta. Fino agli anni settanta, sì fino al Vietnam, se ci fosse stata quella tomba, nessuno avrebbe manifestato. Anzi, forse sarebbe stata meta di pellegrinaggi. Così, anche il comandante Tibbets, il "direttissimo" interessato, aveva capito."

Appostato sopra tutto questo c'era Egdar Hoover.
Vento&orizzonte erano completamente diversi quando irruppe "la sporca guerra".

"Gli anni del Vietnam erano quelli del cambiamento. Le scuole, gli artisti, la musica, il cinema, avevano girato pagina. La presa di coscienza dei diritti civili era, in automatico, l'assunzione del pacifismo. Film intensi e di qualità, alcuni sul Vietnam. Platoon, di Stone, è soprattutto un action, racconta la guerra in quel contesto dalle mille trappole. Gli altri sono, quasi sempre, storie di reduci. Il Cacciatore di Cimino mostra il trapasso dalla pace alla guerra, da una festa di nozze alla giungla. E mostra i reduci attoniti, sfatti dai traumi, mutilati e irrecuperabili. In Tornando a casa di Ashby, Jon Voight ha perso le gambe dal bacino. Cerca tuttavia di ritrovare una ragione di vita. Tremendo è il disagio di Tom Cruise, anche lui ridotto su una sedia a rotelle in Nato il 4 luglio, ancora di Stone. Solo una voce si levava a favore dell'intervento Usa in Estremo Oriente, ed era quella patriottica di John Wayne. Nel suo Berretti verdi Wayne, un colonnello, raccoglie sulla spiaggia un piccolo orfano vietnamita. Lo prende in braccio e gli dice "adesso a te ci penserò io". Era l'ingenuità di un uomo che attribuiva al suo paese (e a se stesso, eroe in tanti film) il ruolo di garante del mondo. Perdonabile. Con Full Metal Jacket, Kubrick detta la sua sintesi autorevole, mostrando l'inutilità tragica di tutto, la dialettica grottesca dei partecipanti. Col Vietnam l'America veniva messa in croce, ma chi piantava i chiodi lo faceva con dolore. Poi, con l'Iraq, l'evoluzione della spirale sentimentale avrebbe trasformato il dolore in rivendicazione, magari in odio. Il cinema americano, dunque, da decenni si pone come forum attento, attivo e critico rispetto all'azione del governo. Il cinema non può fermare le guerre, però se dà un'indicazione, è bene che vi si ponga attenzione."

Appostato sopra tutto questo c'era sempre stato, fino al '72, quando morì, Egdar Hoover.

Radicali
I film sulle ultime guerre del Golfo, ancora in atto, erano ancora più radicali e abrasivi verso le amministrazioni, non facevano prigionieri. Non c'è voluto il tempo di una generazione per avere una prospettiva storica per un giudizio sull'Iraq. Che fosse una guerra sbagliata lo avevano capito quasi tutti. Non lo aveva capito l'uomo che poteva... non dichiararla. La guerra è la guerra, tragica e paradossalmente cinematografica. Al cinema è bastato guardare con attenzione, cercare e trovare senza tanta fatica. Alcuni dei titoli esemplari: Stop-Loss, Grace Is gone, Jarhead, Three Kings, Redacted. Roba abrasiva e impietosa, appunto.

Spietato
"Impietoso" si addice dunque a Eastwood che, nella rappresentazione dei suoi contenuti, ha voluto intervenire direttamente sulla guerra, proprio su quella eroica risparmiata dal cinema spietato. Flags of Our Fathers è la storia di tre combattenti di Iwo Jima. Non c'è leggenda e non ci sono trionfi. Lettere da Iwo Jima racconta la stessa battaglia dalla parte dei giapponesi. Il regista non fa distinzioni, i combattenti, sui due fronti non sono diversi, sofferenza, dignità e fede appartengono, nella stessa misura, ai due eserciti. Un modo quasi scioccante di portare l'argomento. Una scelta attonita, un unicum alla Eastwood.
Ho scritto "impietoso", un aggettivo che, in un certo senso, lascia qualche spazio e qualche prigioniero. Uno che ha fatto tante volte l'uomo del west potrà criticare, con potenza, il proprio paese, ma non riesce a odiarlo. Anche per questo l'autore si impone e "sospende" il cinema. Un "Eastwood", col suo equilibrio critico impietoso-ma-senza-odio lo vai a vedere, è una regola ed è un rito, lo ribadisco. È opportuno, per capire, il riferimento a un suo collega contemporaneo che si dedica all'America. Oliver Stone non è solo impietoso, è aggressivo, provocatorio, guastatore. La provocazione che certo è un buon asso artistico, tuttavia qualcosa sottrae. Stone ha deciso per quel percorso estremo. Eastwood non avrebbe mai abbracciato Hugo Chaves, presidente comunista del Venuezela, nemico ufficiale degli Usa, sul pulpito veneziano. È stato quando il regista ha presentato il documentario South of the border, dove apparivano anche il brasiliano Lula, il boliviano Evo Morales, l'argentina Cristina Kirchner, il paraguayano Fernando Lugo, l'ecuadoregno Rafael Correa. E poi infine lui, Raul Castro, fratello di Fidel al quale il regista aveva dedicato due documentari facendone un eroe della rivoluzione e della libertà. Stone ha finito per compromettersi anche le simpatie dei progressisti, salvo dei più radicali. Eastwood ha trovato un codice migliore. È la ragione per cui fa testo.

Temi
La guerra, il potere, l'eroe, la morte, l'al di là. Alcuni dei temi immani, difficili.
In Potere assoluto Gene Hackman è il presidente degli Stati uniti. È impegnato in un momento di sesso estremo. Le guardie del corpo sono costrette a uccidere la partner.
Il Presidente cerca di coprire tutto. Eastwood non è certo gentile col leader americano e alla fine lo punisce. È presumibile che l'amministrazione di allora, era il 1997, dunque Clinton, non abbia gradito.

La morte. Un pensiero che non può non sfiorare un ultraottantenne. Nel 1990 Eastwood girò in Africa Cacciatore bianco, cuore nero. Si era calato nei panni di John Huston, quando nel 1952 aveva girato La regina d'Africa, con Bogart e Katharine Hepburn. Huston era un eroe per Eastwood che nelle interviste, e certo nei pensieri, ricorda sempre il regista, su una sedia a rotelle, sul set del suo ultimo film, The Dead, i Morti, tratto dai Racconti di Dublino di Joyce. Huston guardava negli occhi la morte, col coraggio degli artisti incantati. Morì pochi giorni dopo l'ultimo ciak. Aveva esattamente l'età di Eastwood. E Clint ha affrontato quel tema in Hereafter, andando persino oltre, dando una sua indicazione sull'al di là. Davvero non era semplice. C'erano certo stati dei precedenti, ma in chiave surrealistica, c'erano responsabilità minori.

L'eroe. In Gran Torino Eastwood è un vecchio reduce della Corea, scontroso e misantropo, senza grande passione per gli stranieri. Eppure alla fine, per difendere una famiglia di asiatici suoi vicini, arriva a sacrificare se stesso, andando all'ultimo duello, come una volta.

Infine J. Egdar, l'uomo più potente d'america, innamorato di se stesso e del potere, capace di tutto per il suo fine. Comunque un uomo con una sua personale buona fede che amava il proprio Paese. Eastwood certo non sta dalla sua parte, ma non sempre. Cerca di non disperdere tutto di quella vita spesa in tante stagioni, dove niente, mai niente era bianco o nero. E le ultime parole che gli fa pronunciare sono d'amore. Ancora una volta il regista attore si sottrae a definizioni e preconcetti ed è prudente nel giudizio. E chiude l'ennesimo "ciclo finale". Ma poi la fine non arriva mai. In attesa del prossimo titolo "obbligatorio".

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