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Ermanno Olmi, il maestro provoca e incanta il lido

Presentato fuori concorso a Venezia Il villaggio di cartone.
di Ilaria Ravarino

Ermanno Olmi al photocall del film Il villaggio di cartone, presentato fuori concorso a Venezia.
Ermanno Olmi 24 luglio 1931, Bergamo (Italia) - 7 Maggio 2018, Asiago (Italia). Regista del film Il villaggio di cartone.

martedì 6 settembre 2011 - Incontri

In conferenza stampa Ermanno Olmi parla, e dice quello che Crialese, Patierno e praticamente ogni italiano transitato in questi giorni al Lido ha provato a raccontare con molta meno efficacia: provoca la platea, gestisce con straordinaria sicurezza le reazioni, incanta con la forza del suo lucido, poetico, chiarissimo pensiero. Presentato oggi «fuori concorso – specifica il moderatore della conferenza stampa - d’accordo con il Maestro», il suo Il Villaggio di cartone ha riportato ancora una volta l’attenzione sul tema dell’accoglienza e del respingimento, dell’immigrazione, della carità umana. Seduti accanto a lui, lo scrittore Claudio Magris e l’amico di una vita Rutger Hauer quasi non osano intervenire, mentre in un silenzio (quello sì, quasi religioso), il regista ottantenne pronuncia parole che pesano come un macigno sull’Italia, sulla Chiesa, sul mondo occidentale. E sul cinema che ha il dovere di raccontare.

Olmi, il suo film sembra suggerire che una chiesa sconsacrata possa essere più utile di una chiesa funzionante: è così?
Olmi: Il film è finalizzato a segnalare esattamente questo: se le chiese e le case non si libereranno da tutti quegli orpelli considerati importanti e nobili, come anche certa cultura, non potremo mai entrare in relazione con gli altri, resteremo per sempre uomini di cartone. La chiesa dovrebbe essere come una casa, che fa entrare tutti senza fare domande. Se non cominciamo ad aprire la casa agli altri, inclusa la casa dell’animo, come possiamo pensare di intenderci con il resto degli uomini? E attenzione: gli orpelli dei conformismi culturali sono i più pericolosi di tutti.

La sua critica quindi è rivolta alla Chiesa?
Olmi: Vorrei solo suggerire ai cattolici, e io sono fra di loro, di ricordarsi più spesso di essere anche cristiani.

Non c’è il pericolo di ridurre il cristianesimo a una religione dell’accoglienza?
Olmi: Perché, c’è qualcosa di più importante dell’accoglienza? Cosa? La sacralità dei simboli?

Gesù, per esempio...
Olmi: ... il film comincia proprio con un Gesù di cartapesta, calato come simulacro di ambiguità: il simbolo, per aver valore, deve rinviare alla realtà della carne. Quando il vecchio prete nel film si porta via quella sculturina della crocifissione, guarda Gesù e gli dice che non riesce a provar pieta per lui, perché è troppo lontano nel tempo. Ha davanti a sé un simulacro e si rende conto di quanta menzogna ci sia nella pietà. Di fronte a un Cristo di cartone tutti si genuflettono invocando l’intervento divino, ma io dico: inginocchiamoci invece di fronte a chi soffre di più, di fronte ai ragazzi che si perdono nella droga o nella disperazione. Cristo ha pagato per noi, ma secoli fa.

Tra i clandestini del suo film c’è anche la presenza inquietante di un kamikaze: perché?
Olmi: È chiaro che questo film è un apologo, non è un film realistico: ogni presenza è un simbolo. Quel personaggio, suggestionato dal discorso di una ragazza terrorista, sceglie di non accettare la relazione con l’altro, considerando anzi l’atto violento come un dovere per interrompere quel dialogo. Non ci sono solo santi tra i clandestini. Abbiamo tutti corpi fisici che hanno cedimenti, o menti con le loro confusioni. Ed è solo attraverso il percorso con gli altri che capiamo chi siamo e cosa vogliamo. Il migrante non è per forza un santo, può avere delle debolezze.

Il prete del suo film dubita della fede, ma non dell’umanità: perché?
Olmi: La vera fede è quando il peso dei nostri dubbi è superiore a quello delle convinzioni. Per essere uomini di fede bisogna avere davanti a sé un muro dubbi. Troppo comodo affidarci all’ideologia o alla religione, affidarci ad altri che pensino per noi. Nei momenti terribili della vita ci chiediamo dove sia Dio, e sapete perché lui non risponde mai? Perché dobbiamo rispondere noi. Troppo comodo far rispondere lui.

Nei suoi film, da anni, ricorrono gli stessi dubbi. Ma qualcuno lo ha risolto?
Olmi: Avete ragione, in fondo la storia che racconto è sempre la stessa....la lotta tra bene e male. E uno degli altri temi che ricorrono e che non mi stanco di affrontare è quello della separazione tra le religioni, perché ancora oggi non me lo spiego. Siamo tutti fratelli nell’origine, ma cosa è accaduto nel frattempo? Dobbiamo riuscire oggi a ritrovare questa solidarietà, questa continuità.... io continuerò a ripeterlo. È la mia forza. Piccola, ma è la mia forza.

Olmi e Hauer, 23 anni dopo La leggenda del santo Bevitore vi ritrovate sullo stesso set: è stato emozionante?
Olmi: Sì, anche se sul piano umano noi non ci siamo mai lasciati: quando ero in ospedale mi voleva venire a trovare, ma non si rendeva conto che ero a 800 km di distanza. È un attore straordinario ma non ha il senso dei chilometri. Viene da altri mondi, lui...
Hauer: Appena Ermanno mi ha scritto del suo progetto, ho capito subito che sarebbe stato interessante. Non ci ho pensato a lungo, ho accettato immediatamente.

Magris come ha collaborato con Olmi?
Magris: Il mio contributo è stato modesto. Abbiamo a lungo discusso del concetto di chiesa come casa, lo stesso che permea anche il film Il tempo si è fermato e lo stesso che appare in un mio libro, nel capitolo finale in cui parlo di una chiesa dove tutti si possono rifugiare, come una capanna di Betlemme. Con Ermanno abbiamo in comune anche il senso che la vera arte rimandi a qualcosa che è aldilà, che sia un gesto sul confine.

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