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Il cuore grande di Pupi Avati

A colloquio con il regista bolognese.
di Ornella Sgroi


venerdì 3 giugno 2011 - Incontri

Motore. Partito. Ciak. 38/1. Azione. Un rituale cinematografico molto caro a Pupi Avati, ricordo di un esordio bizzarro e incosciente sul set di Balsamus nel 1968, che racconta sempre con grande divertimento.
Ha da poco finito di girare il suo trentottesimo film, Il cuore grande delle ragazze, con Cesare Cremonini e Micaela Ramazzotti. Trentotto film per il cinema che, sommati a quattro sceneggiati televisivi a cavallo degli anni Ottanta, fanno un totale di 42 film in 43 anni, con una media recente di due titoli a stagione. Una cifra da record.
Si potrebbe stare ore a sentirlo parlare, con l'inarrestabile fiume di aneddoti, esperienze ed emozioni che ha da raccontare. Con grande generosità e simpatia. E chiacchierando con lui, a tu per tu, intorno al tavolo di un elegante bar nella hall di un albergo di Catania, dove il Maestro è stato ospite di Filminscena, rassegna dedicata al cinema dal Teatro Stabile etneo, il segreto di tanta creatività e di tanta energia è presto svelato.
Con i suoi settantadue anni, Pupi Avati è un uomo dalla sconfinata giovinezza. Pieno di entusiasmo, di idee, e soprattutto di sogni e nuovi progetti. Tanto che, con il nuovo film in postproduzione e un Nastro d'argento alla carriera appena ricevuto, il regista bolognese ha già in cantiere per la Rai sei film di cento minuti ciascuno, che inizierà a girare a settembre per raccontare la storia dell'Italia dal dopoguerra ai giorni nostri, attraverso la storia di un matrimonio durato cinquant'anni.
Un tema, quello coniugale, che – partendo da uno spunto autobiografico, come spesso accade nei suoi film – è anche il nucleo vitale de Il cuore grande delle ragazze, in uscita il 4 novembre con Medusa, sulle musiche dell'amico di una vita Lucio Dalla.
«È ambientato negli anni '20, nella mia campagna (anche se gli esterni sono stati girati a Fermo, nella Marche) – ci racconta Pupi Avati – e narra la storia di quello che fu il matrimonio dei miei nonni materni. La loro storia mi è sembrata perfetta per farne una commedia brillante e luminosa, perchè dopo un film doloroso, plumbeo e difficile come Una sconfinata giovinezza, a me molto caro, ho sentito la necessità di raccontare una storia leggera ma con un suo significato. Questo film è dedicato alle donne, all'epoca capaci di sopportare e perdonare comportamenti dei mariti che le donne di oggi difficilmente accetterebbero. E la vita le risarciva di questa generosità, dando loro un misterioso ascendente definitivo sui loro mariti, che alla fine tornavano sempre dalle mogli. Ecco, ho voluto rievocare un tempo, non troppo lontano, di cui il matrimonio dei miei nonni è emblematico. Mio nonno Carlino, infatti, tradì mia nonna Francesca la prima notte di nozze con una cameriera dell'albergo in cui alloggiavano per la luna di miele e non credo che fosse un'eccezione. Comunque il cuore grande, le donne, lo hanno conservato ancora oggi. Forse non sono più disposte a perdonare come lo erano allora, ma hanno conservato uno sguardo sulle cose molto ampio, a grandangolo. Lo vedo in tutte le donne della mia vita, da mia moglie alle mie figlie e alle donne con cui lavoro. Riescono ad avere un misterioso coinvolgimento nelle relazioni, sono più affidabili. Si appassionano di più a quello che fanno e hanno una dose maggiore di sensibilità».

Lei nei suoi film chiama spesso attori presi in prestito da altri mestieri, come Cesare Cremonini al quale ha affidato il ruolo di nonno Carlino. Cosa la spinge a fare scelte di questo tipo?
C'è una certa pigrizia da parte del cinema nel fare i casting, che produce una forma di rassegnazione per cui gli attori si trovano spesso a fare lo stesso ruolo, come se vi fosse una sorta di specularità con la persona. Credo che questo sia poco stimolante per la nostra professione, che invece trova un momento di grande ebbrezza ed eccitazione quando si assume dei rischi. Ecco allora che chiami un cantautore di Bologna, un certo Cesare Cremonini di cui non sai nulla e che hai visto intervistato in televisione da Victoria Cabello, semplicemente perchè hai rivisto in lui molto di te stesso alla sua età. Ho riscontrato in Cesare la stessa visione delle cose, la stessa bolognesità. E credo sia stata una scelta azzeccata, anche per lui. Ha adorato fare questo film, anche perché è stato coinvolto da me e mio fratello nel progetto con una responsabilità da protagonista.

E comunque c'era Lei a dirigerlo...Come riesce ad ottenere interpretazioni straordinarie anche da chi non lo fa di mestiere?
Io metto solo l'affetto. Nel caso di Cesare, si è fidato del nostro intuito e noi lo abbiamo circondato di bravissimi attori. A partire da Micaela Ramazzotti, cui ho affidato il ruolo comico di una moglie brillante, innamorata pazza di suo marito, come era mia nonna. Questo era il suo problema! Ma anche mio nonno era innamorato pazzo di lei, tanto che si concedeva degli "scambi" solo momentanei...definitivamente non l'avrebbe scambiata mai!

Molti dei suoi film, compreso quest'ultimo, prendono spunto da riferimenti autobiografici che trovano un comune denominatore nelle ambientazioni bolognesi o nei frequenti rimandi al mondo della musica jazz di cui Lei è appassionato. Partiamo da Bologna...
Bologna rappresenta il luogo dove è accaduto tutto. È dove sono nato, anche se sono stato concepito a Roma il 3 febbraio 1938 all'hotel Pax Helvetia, durante il viaggio di nozze dei miei genitori. Il che spiega la mia grande passione per Roma, dove ormai vivo da quarant'anni. Ma a Bologna sono nato e cresciuto. Con i boyscout, il bar, la jazz band, i primi amori, gli amici, i tradimenti. I sogni, la scoperta del cinema. Il matrimonio, i primi figli. E anche le prime delusioni. Dopo i primi due insuccessi cinematografici sono dovuto scappare da Bologna perchè, come ogni città di provincia, gli insuccessi non te li perdona. Così sono andato a Roma e lì, dopo un lento, progressivo riprendermi, ho avuto la possibilità di dare continuità al mio lavoro. Questa distanza da Bologna mi ha permesso di rimmaginare quel luogo, come nella ricostruzione di un puzzle in cui si risistemano i tasselli con una collocazione diversa. Nei miei film, infatti, ho sempre raccontato Bologna non come era, ma come mi sarebbe piaciuto che fosse. E la cosa divertente è che tanti, invece, si sono riconosciuti nella realtà di una rappresentazione che reale non lo era per niente! (ride) È un modo per migliorare la propria autobiografia, forse.

E della sua passione per il jazz cosa può dirci?
La musica è il grande rammarico della mia vita. Ancora oggi, se potessi fare a cambio, avrei tanto preferito essere un musicista più che un cineasta. La musica ha un'immediatezza creativa che il cinema non ha, che rimbalza e si riflette anche nella creatività degli altri, producendo un'alchimia misteriosa e un'eccitazione istantanea che il cinema non ti dà. Sono grato al cinema perchè mi ha permesso di raccontare gli altri, però forse avrei preferito essere un musicista. È che io ho amato fortemente la musica, ma la musica purtroppo non ha amato me. E allora io mi vendico sugli amici musicisti, come Lucio, bocciando le loro proposte musicali! (ride) La verità è che la vita ti riserva tante sorprese incredibili. Per questo immaginare e prevedere la propria vita è la cosa più sbagliata che si possa fare. Io come avrei mai potuto prevedere, quando lavoravo alla Findus, che avrei fatto quaranta film? Però è accaduto. La vita è piena di cose imprevedibili. L'atteggiamento che suggerisco ai giovani è di rendersi disponibili, come in ascolto, pronti a salire sull'autobus che passa, senza razionalizzare troppo. La ragione è una pessima consigliera. E fare troppe previsioni nella vita è un grandissimo errore.

Lei ha diretto circa quaranta film in quarant'anni. Dove trova tanta energia e ispirazione?
La creatività è un muscolo, più la si esercita, più ha bisogno di esprimersi. Come per lo sportivo muoversi è una necessità, per me raccontare storie è salutare. Ogni film è un modo per liberarmi da certe tossine, per rigenerarmi. Quando un giorno mi guarderò indietro per fare un bilancio del mio lavoro, credo che scoprirò di aver fatto in realtà un unico film, di aver raccontato un'unica storia che passa attraverso i tempi e i luoghi e parla di personaggi che in fondo sono gli stessi.

Un unico film per raccontare che cosa?
Per raccontare me stesso. Con un aggiornamento che muta di anno in anno, perchè muta il punto di osservazione in base al trascorrere del tempo, che cambia molte cose. Quando riguardo i miei vecchi film, li vivo con imbarazzo perchè vedo quello che sono stato e che non sono più. Gli eventi mi hanno talmente modificato fisicamente, caratterialmente, culturalmente, che a distanza di tempo, se dovessi rifare quei film, non li rifarei certamente così. Forse peggio, ma non così (ride). È come vedere una vecchia fotografia e scoprirsi, ad esempio, molto più sessantottino di quanto potessi immaginare. Hai respirato l'aria del tempo con la sensazione di esserne stato immune, esente, e invece non è così. Eri prigioniero di quel tempo e ogni film in qualche modo lo denuncia.

Tornando al suo amore per gli attori, anche non professionisti, cosa cerca Lei in un interprete?
Innanzitutto la sfida e la provocazione nei confronti del sistema, per dimostrare che la rassegnazione non è un atteggiamento positivo e che si può trovare anche al di fuori di un ambito consolidato qualcosa che dimostri che ci sono valori universali. Poi, ciò che mi induce a scegliere un attore è la curiosità, che è l'energia e il propulsore di ogni aspetto. Dall'argomento che tratta il film in giù, è tutto mosso dalla curiosità di indagare un contesto, una vicenda, le dinamiche psicologiche dei personaggi. È la curiosità che tiene in piedi il rapporto con gli attori, che si fonda prima di tutto sugli aspetti umani. La cosa più importante è che io abbia davanti a me una persona, dotata di umanità e generosità. E se poi ha un vissuto esterno al mondo del cinema, è anche meglio, perchè lo porta con sé sul set e quindi nel film. Per questo non faccio mai provini. Mi fido dell'intuito mio e di mio fratello e per adesso è andata bene così.

Quindi resta qualcosa dopo il film, tra Lei e gli attori che ha diretto...
Una grande riconoscenza. Da parte mia nei loro confronti. Nel momento in cui le pronunciano, le parole che io ho scritto assumono una bellezza che le rende emozionanti, e per quasto sono riconoscente. Poi c'è senz'altro da parte mia una vicinanza pressante e affettuosa, una certa complicità che permette a questo rapporto di produrre certi risultati. In fondo sono storie d'amore, le nostre. C'è sempre di mezzo un po' l'amore in tutto quello che facciamo.

Con la sua filmografia Lei ha esplorato un po' tutti i generi....
Non tutti, in verità. La fantascienza o il western, per esempio, no (ride). Sono generi che non mi hanno mai interessato perchè l'essere umano nella sua verità è sempre tenuto alla larga. Si parla si supereroi e superman. Io, invece, so raccontare le fragilità, l'essere umano nei suoi sogni, nelle sue aspettative, nel suo desiderio di felicità. Credo che ognuno si noi sia legittimato ad aspettarsi dalla vita la felicità. Poi se non arriva è un altro paio di maniche. Ma togliere l'illusione alle persone di poter essere felici, di poter realizzare i proprio sogni, secondo me è gravissimo. E molte persone che si sono realizzate, invece, tolgono ai ragazzi ogni tipo di opportunità, di possibilità che hanno e che dovrebbero avere, essendo giovani, di sognare.

Maestro, a proposito di giovani, qual è il segreto per essere un buon regista?
Essere se stessi e cercare di non innamorarsi troppo del cinema degli altri. Non essere un cinefilo, insomma. Perchè i cinefili di solito sono vittime di troppe influenze. Anche i grandi capolavori, li hanno già fatti ed è inutile cercare di rifarli! (ride) Quindi, vivere cercando di essere molto autentici. Invece, i giovani che vogliono far cinema in genere sono cinefili accaniti, purtroppo, e io temo che faranno molta fatica a trovare una propria identità, un proprio tono di voce, una propria calligrafia, che è poi l'unica cosa per la quale valga la pena fare questo mestiere. Essere riconoscibili, avere un'identità. Questa è la cosa più difficile, però bisogna riuscirci. Infatti il mio sogno, quello che dà un senso a tutta la mia vicenda professionale, è che un giorno lei, entrando in una sala cinematografica al buio a metà film, vedendo una sequenza dica "questo lo ha fatto Pupi". Se riuscissi ad arrivare a questo, allora vorrebbe dire che valeva la pena facessi questo mestiere.

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