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Todd Solondz, la mina vagante del concorso

Il regista americano presenta al Lido il suo Dark horse.
di Ilaria Ravarino

In foto Todd Solondz, Selma Blair e Jordan Gelber al photocall del film Dark Horse.
Selma Blair (Selma Blair Beitner) (51 anni) 23 giugno 1972, Southfield (Michigan - USA) - Cancro. Interpreta Miranda nel film di Todd Solondz Dark Horse.

lunedì 5 settembre 2011 - Incontri

Nel cinico linguaggio delle corse il “dark horse” è il cavallo di razza indefinita, la bestia meticcia su cui è difficile piazzare le puntate, perché scommettere sulla sua prestazione è più rischioso. Traslato alla politica, il cui linguaggio è notoriamente ancor più spietato, il “dark horse” è l’outsider, la mina vagante, la scheggia impazzita che può far saltare ogni previsione sulle elezioni. Un’espressione idiomatica, insomma, che non ha proprio nulla di tenero né gentile, e che non a caso Venezia scopre oggi nel titolo del film in concorso di Todd Solondz, Dark Horse appunto, al Lido insieme agli attori Selma Blair, Jordan Gelber e al produttore Ted Hope. Un film molto atteso e molto applaudito, ma con riserva: ritenuto da parte della stampa il film più dolce della carriera dell’amaro Solondz, per molti qui al Lido è già diventato il “dark horse” del prossimo totoleone.

Solondz, perché questa svolta dolce?
Solondz: Dite davvero, dolce? Credo che questo film sia una commedia, ma non rido quando lo guardo perché è pieno di dolore, c’è molta malinconia. C’è un protagonista colpito da tutta una serie di gravissime sfortune e forse sì, in questo senso provo grande tenerezza per la sua difficile situazione.
Jordan Gelber: Credo che sembri molto diverso dai suoi film precedenti non tanto per la dolcezza della storia, ma perché stavolta Todd si è concentrato su un solo protagonista, seguendo le sue vicende. Un po’un ritorno alle origini, alla Welcome to the dollhouse.

Che significato attribuisce all’espressione “dark horse”?
Solondz: Direi che è... è un piano sequenza. È qualcuno che potrebbe aver successo nella vita, ma non ce la fa. È una scommessa persa, uno sforzo insieme triste e commovente.

Nel demolire il mito della famiglia americana, il suo film sembra avere un intento anche politico: è così?
Solondz: Non so dare la ricetta giusta per l’interpretazione dei miei film. Ogni cosa che si fa ha una dimensione politica, magari inconsapevolmente. La mia storia parla di un collezionista che finisce per essere lui stesso di proprietà della sua collezione, e questa situazione è sintomatica di una società consumistica, che incoraggia comportamenti infantili e che ci invita a distrarci da ciò che di più serio accade intorno a noi.

Ritiene che l’eterna adolescenza del protagonista sia una condizione americana?
Solondz: Non credo che sia una condizione esclusivamente americana. Il mio protagonista ha la mania di collezionare fumetti, sappiamo che li conserva ma non sappiamo nemmeno se li ha letti, eppure il fenomeno esiste anche in Giappone, dove hanno coniato un termine apposito per indicare queste persone, “otaku”.
Gelber: Lui è un bambino mai cresciuto, che vive circondato da una società in cui tutti si stanno sposando, stanno invecchiando. Il film è la storia del conflitto tra la sua parte adulta e quella bambina.

In che modo il film prende le distanze dal classico concept hollywoodiano dell’uomo-bambino?
Hope: Mi rendo conto che quel concept è stato molto sfruttato da Hollywood. Ma io penso che il cinema indipendente americano, riformulando quella stessa idea, possa far da contrappeso all’industria hollywoodiana, fornendo un esempio di come si possa partire dallo stesso punto per toccare vette maggiori. Dark Horse è un film dai personaggi complessi, divertente e commovente, pieno di sfumature che rendono la storia vera, non un prodotto pronto e impacchettato per il consumo.

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