alessio trerotoli
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venerdì 20 gennaio 2012
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il talento come prigione
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Un documentario che sembra uscire dalla penna di un romanziere: l’incredibile storia di un talento (in parte) sprecato, quello di Bobby Fischer, probabilmente il più grande scacchista di sempre, diventato campione del mondo a 29 anni e poi scomparso dalle scene per (auto)imprigionarsi in un vortice di paranoia e solitudine. Una storia coinvolgente su un genio che ha dedicato la sua vita ad una passione, toccando il cielo con un dito prima di sparire nel nulla: “è come se di Picasso conoscessimo solo pochi quadri”, racconta nel film chi lo ha conosciuto da vicino. Una storia di nevrosi e paranoie prodotta dalla HBO, impostata dalla regista Liz Garbus come una partita a scacchi tra il protagonista e lo spettatore: l’infanzia e l’esplosione del suo talento (a 15 anni è già campione degli Stati Uniti), il suo astio verso i russi (definiti “imbroglioni” da Fischer), e una serie di successi fino al climax del film, e della sua vita: il campionato del mondo del 1972, il cosiddetto “incontro del secolo” con il campione in carica Boris Spasskij.
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Un documentario che sembra uscire dalla penna di un romanziere: l’incredibile storia di un talento (in parte) sprecato, quello di Bobby Fischer, probabilmente il più grande scacchista di sempre, diventato campione del mondo a 29 anni e poi scomparso dalle scene per (auto)imprigionarsi in un vortice di paranoia e solitudine. Una storia coinvolgente su un genio che ha dedicato la sua vita ad una passione, toccando il cielo con un dito prima di sparire nel nulla: “è come se di Picasso conoscessimo solo pochi quadri”, racconta nel film chi lo ha conosciuto da vicino. Una storia di nevrosi e paranoie prodotta dalla HBO, impostata dalla regista Liz Garbus come una partita a scacchi tra il protagonista e lo spettatore: l’infanzia e l’esplosione del suo talento (a 15 anni è già campione degli Stati Uniti), il suo astio verso i russi (definiti “imbroglioni” da Fischer), e una serie di successi fino al climax del film, e della sua vita: il campionato del mondo del 1972, il cosiddetto “incontro del secolo” con il campione in carica Boris Spasskij.
Lo storico incontro di Reykjavik appassiona gli Stati Uniti, Fischer fino all’ultimo sembra intenzionato a non presentarsi, ed una serie di richieste assurde mettono a rischio l’incontro. Alla fine però il nuovo idolo statunitense partecipa al torneo, dando vita ad un match appassionante con Spasskij, lentamente abbattuto dalle intuizioni del rivale, primo ed unico statunitense a vincere il titolo di campione del mondo. Praticamente qui finisce la storia di Fischer scacchista, e comincia la vita di Fischer il disperso, l’asociale, l’antisemita.
La storia di un uomo solo imprigionato all’interno del suo stesso talento, un’ossessione che gli porterà via l’infanzia, l’adolescenza e infine la vita (”Un giorno ho provato a scrivere il testo per una canzone ma non usciva nulla, avevo il vuoto dentro: è perchè non ho vissuto abbastanza”). I suoi giorni finiscono nel 2008, in quella Reykjavik che tanti anni prima gli aveva regalato la gioia del titolo di campione del mondo, e che ora gli aveva concesso la cittadinanza: Bobby Fischer muore a 64 anni, proprio come il numero delle caselle degli scacchi, e fanno riflettere le sue ultime, lucidissime, parole; la testimonianza di un uomo che ha trascorso la sua esistenza da solo, accompagnato soltanto dalla sua passione: “Niente è più curativo del calore umano”. Sprazzi di “A beautiful mind” sulla splendida scacchiera di Extra.
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angelo umana
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giovedì 26 gennaio 2012
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niente è più curativo di un gesto umano
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Quello che nel 1972 ci sembrò un “normale” campionato mondiale di scacchi fu il punto di arrivo e la ripartenza per una vita un po’ disordinata di quel ragazzone 29enne dall’andatura sgraziata. Anche in questo sta il merito del regista del documentario “Bobby Fischer against the world”: nell’averci fatto conoscere l’uomo che stava dentro il campione. I drammi vissuti da bambino, un “upset child” come è definito nel film, il difficile rapporto con la madre, l’adulto suo amico che scopre essere suo padre quando questo muore e il bambino ha solo 9 anni. Già a 6 anni divorava libri di scacchi e a 7 aveva cominciato a “fare sul serio”. Alla morte del padre gli scacchi diventarono il suo unico rifugio, un isolamento da persona “extremely talented” e “goal directed” ma con problemi psicologici, che non condivideva nulla con nessuno, nemmeno coi suoi coetanei.
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Quello che nel 1972 ci sembrò un “normale” campionato mondiale di scacchi fu il punto di arrivo e la ripartenza per una vita un po’ disordinata di quel ragazzone 29enne dall’andatura sgraziata. Anche in questo sta il merito del regista del documentario “Bobby Fischer against the world”: nell’averci fatto conoscere l’uomo che stava dentro il campione. I drammi vissuti da bambino, un “upset child” come è definito nel film, il difficile rapporto con la madre, l’adulto suo amico che scopre essere suo padre quando questo muore e il bambino ha solo 9 anni. Già a 6 anni divorava libri di scacchi e a 7 aveva cominciato a “fare sul serio”. Alla morte del padre gli scacchi diventarono il suo unico rifugio, un isolamento da persona “extremely talented” e “goal directed” ma con problemi psicologici, che non condivideva nulla con nessuno, nemmeno coi suoi coetanei.
Abbiamo scoperto che la sfida vinta a Boris Spassky – che gli valse l’applauso dallo stesso avversario (“niente è più curativo di un gesto umano”, disse poi) - rappresentò il massimo del suo talento, la conquista a cui aveva ambito per tutta la vita fino ad allora. Dopo si scoprì fragile e instabile, lo scopo raggiunto tolse il telo sopra una vita vuota, la fama mondiale fu come gli avessero tolto qualcosa. Non aveva altro al mondo, aderì a una setta religiosa, ebbe paura di tornare a sedersi davanti alla scacchiera: così perse il titolo a favore del giovane Anatolij Karpov.
Lui così schivo e solitario era diventato già 15enne il simbolo di una supremazia che gli americani (si era ai tempi di Nixon e Breznev) volevano strappare ai russi. Ormai conosciuto fuggiva dai reporters e dalla gente, l’”Against the world” sembra essere una battaglia, più che contro gli altri, contro sé stesso, le sue fobie, il suo isolamento. Morì a 65 anni nel 2008 in Islanda, la nazione che aveva ospitato la sfida del ‘72 e che gli aveva dato la nazionalità dopo che gli USA lo avevano dichiarato fuori legge perché risiedeva in Jugoslavia durante la guerra dei primi anni ’90. Difficile ritrovare nel “vecchio” dai discorsi ossessivi quel ragazzo affascinante e geniale che aveva voluto raggiungere il titolo. La scena che mostra il suo viso intelligente e aperto nella campagna islandese, nei giorni dopo la conquista del titolo, accarezzare i cavalli, fa pensare a quanto gli siano mancate le carezze degli uomini e come in realtà le abbia cercate negli animali.
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