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Il cinema della dedizione

A Simple Life come elogio della compassione.
di Roy Menarini

Una scena del film A Simple Life di Ann Hui.

domenica 11 marzo 2012 - Approfondimenti

Le casualità distributive offrono spesso materia di riflessione. Per esempio, l’ironia della sorte vuole che il bel film di Ann Hui, A Simple Life, venga distribuito negli stessi giorni di John Carter. Non ci interessa tanto opporre retoricamente il cinema blockbuster della Walt Disney e la piccola opera hongkonghese, bensì osservare come anche nelle scelte dei personaggi si intravedano le differenti filosofie estetiche. Il protagonista del film di Andrew Stanton arriva su Marte e si accorge che sul pianeta rosso la sua massa corporea gli permette balzi formidabili e passi da gigante; la mite Ah Tao invece subisce un infarto ed è anche lei spedita in un “mondo nuovo”, assai meno avventuroso di Marte (un ospizio), dove per prima cosa dovrà fare i conti con le conseguenze del collasso, tra cui l’impossibilità di reggersi sulle sue gambe senza stampelle e la difficoltà a muovere un corpo sempre più affaticato.
Ancora: John Carter si fa subito amico un essere informe e bavoso, simpatico e fedele come un cane, che corre più veloce di lui e gli salva le pelle in più di un’occasione. Al contrario, Ah Tao accudiva il gatto di casa e, ora che si trova in una struttura per anziani e lungodegenti, ne sente la mancanza, fino a che il suo figlioccio le porta il felino in ospedale per farla felice.
Insomma, suggestioni simmetriche, puramente arbitrarie, per dire che Hollywood – o quanto meno quella Hollywood – celebra ancora una volta la forza, la conquista, la gioventù e il superamento dei limiti della fisica, mentre il cinema d’autore orientale ci ricorda invece che anche il tramonto di un’anziana domestica, con un corpo che decade lentamente e un contesto (l’ospizio) tutt’altro che allegro, merita una storia che la racconti.
In verità, c’è poco da riassumere in A Simple Life, se non che tratta con grande delicatezza un tema importante quanto quello della compassione e, ancora più, della restituzione delle cure ricevute. Roger, interpretato con molte sfumature da Andy Lau, deve alla sua domestica un’infanzia felice, una attenzione e una dedizione assolute, e forse qualcosa in più, una protezione quasi materna. Dunque, non può fare a meno di occuparsi dell’anziana, anche se a distanza, pensando persino – per un breve periodo – di regalarle una nuova abitazione in cui passare gli ultimi anni di vita. Raccontare la fine di un’esistenza e non mentire di fronte alla vecchiaia sembra imperativo di Ann Hui, che pure evita ogni “accanimento terapeutico” e si ferma sempre un passo al di qua della facile commozione. Interessante, poi, che il personaggio di Roger lavori nel cinema. Al di là dei cammei di personalità celebri dell’industria di Hong Kong (da Tsui Hark a Sammo Hung), il mondo del cinema viene tematizzato con chiaro riferimento a ciò che dal grande schermo deve poi trasferirsi nella vita reale, pena la miseria morale di chi abita l’universo dello spettacolo. Non si possono girare film ignorando la verità del mondo. Le vite semplici, quelle degli altri, meritano sempre una restituzione artistica.

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