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Il ritorno dell'uomo lupo

Dopo quasi 70 anni torna al cinema l'uomo lupo profondamente rivisto.
di Gabriele Niola

Wolfman, il nuovo uomo lupo è ateo

mercoledì 17 febbraio 2010 - Making Of

Wolfman, il nuovo uomo lupo è ateo
Ultimo, in ordine di tempo, tra i mostri classici della Universal a comparire al cinema e quindi ultimo, sempre cronologicamente, ad aver visto un remake moderno, l'uomo lupo di Wolfman giunge dopo una lunga stagione di mutamenti ed evoluzione delle figure del terrore classiche.
Negli ultimi dieci anni infatti storie antiche come quelle dei vampiri e dei lupi mannari si sono mischiate nella narrativa popolare (sia cinematografica che letteraria) alla più moderna mostruosità degli zombie. Se nel 1992 Coppola poteva rifare Dracula con piglio classico e nel 1994 Kenneth Branagh misurarsi con un Frankenstein rimodernandolo solo a parole, oggi dopo le variazioni di infiniti film a tema vampiro-licantropesco (in primis i racconti crossmediali della saga di Twilight) il mito dell'uomo lupo ci giunge mutato secondo le medesime direttrici che hanno portato la figura del vampiro da incubo satanico, foriero di fobie gotiche ancestrali e fascino della pulsione sessuale, a figura problematica, contagiata da un male quasi spiegabile.
Lo scarto che separa Wolfman da L'uomo lupo racconta di come gli ultimi anni abbiano concesso alla concezione del male che rappresentiamo al cinema di svincolarsi da qualsiasi connotazione religiosa per approdare al più materiale campo delle colpe familiari. L'uomo lupo non è più un maledetto ma qualcuno che sconta una colpa.

Il confronto con l'originale
La differenza che più di tutte salta agli occhi vedendo come gli sceneggiatori di Wolfman abbiano deciso di riraccontare la storia che era alla base di L'uomo lupo di George Waggner è che, contrariamente a quello che accade solitamente, il film che esce al cinema ora è ambientato nell'epoca vittoriana mentre il film del 1941 era ambientato nel presente dell'epoca. Già da questa scelta Wolfman sembra voler andare alle radici di un mito che originariamente non era così antico, cercando un revisione definitiva ed inappellabile della figura.
A rimanere invariato nella storia è il fatto di avere un protagonista americano in terra inglese su cui pende l'implicito senso di colpa di un fratello appena morto, così da aiutare l'emergere di un senso di estraneità e solitudine quando, come nell'originale, viene accusato degli omicidi che si susseguono misteriosamente senza che vengano addotte delle prove ma con la forte motivazione di essere straniero.
Partendo dunque da questi elementi, Johnston e gli sceneggiatori costruiscono una storia che, rispetto al modello originale, calca molto di più sulla violenza (con un inedito prologo di sventramenti) e sull'amore per la ragazza di turno (originariamente in secondo piano). Più importante è anche la rivalità paterna (da cui il capovolgimento della risoluzione finale) mentre all'ansia delle continue trasformazioni che ossessionavano Lon Chaney Jr., Benicio Del Toro sostituisce un passato in manicomio che male si incastra con le dinamiche del resto del film, rimanendo alla fine un grande punto interrogativo.
Certo Wolfman non risparmia in citazioni al film primigenio, anche senza motivo. C'è il bastone a testa di lupo anche se manca la sua funzione originale e c'è la poesia iniziale sulla luparia anche se poi nel film moderno la trasformazione arriva con la luna piena e non, come nell'originale, quando appunto la luparia è in fiore. Totalmente scomparso invece il segno sulla pelle che marchia il licantropo, quella stella che richiamava esplicitamente ai marchi che i nazisti imponevano agli ebrei e che oggi avrebbe avuto meno senso.

Da maligno a malato
Prescindendo però dall'analisi delle singole variazioni ciò che di realmente diverso c'è in Wolfman rispetto al suo omologo del '41 è l'approccio alla maledizione.
Quello che accade nel film originale è che, anche per debito al precedente Il mistero del Tibet, le trasformazioni sono dovute al contatto casuale con elementi della mistica indiana, mentre in Wolfman il primigenio contatto (che comunque accade durante un viaggio in India) non avviene casualmente ma per aver inseguito la propria curiosità. In sostanza Wolfman introduce il tema della colpa (che si tramanda lungo l'albero genealogico) nelle origini della maledizione riducendo la componente maligna.
Da "male" inteso come opposizione al "bene" di matrice religiosa si passa al "male" inteso come malattia da contrarre e con la quale contagiare altri. Lo scarto avvenuto negli ultimi anni dunque sembra risiedere più che altro nello svincolo dei discorsi su bene e male da qualsiasi implicazione cristiana, e non per abbracciare il paganesimo di quei vecchi film ma una sorta di strana "naturalità" di queste trasformazioni.
Non ci sono antidoti o armi particolari in grado di combattere l'uomo lupo, non ci sono pallottole d'argento o cose simili, la scomparsa della componenti metafisiche da qualsiasi ambito della storia ha portato via anche i suoi elementi accessori come gli oggetti magici. L'uomo lupo ora è un mutato e come tale continua a rispondere alle normali leggi della fisica, è un animale grosso e violento come un orso e come tale può essere contrastato con le normali armi.
L'uomo lupo non è più nemmeno male in sè, a differenza di 70 anni fa, oggi il mostro riesce a resistere di fronte all'istinto di dilaniare la preda se questa è la donna amata. Il male risiede invece negli uomini e in particolare nei padri. Wolfman è un dramma molto più ripiegato sulle dinamiche familiari che rivolto all'esterno, la famiglia (non a caso istituzione cattolica) è il ricettacolo del male e l'origine dei traumi infantili che condizionano la vita adulta, è lì dentro che si consuma la parte maligna dell'essere un contaminato dalla licantropia.

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