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Ryoo Seung-wan, ripartire dall'hard boiled

Il regista coreano presente al Far East Film 13 con The Unjust.
di Emanuele Sacchi

Il regista sudcoreano Ryoo Seung-wan, al Far East Film 13 con il suo The Unjust.
Photo: Paolo Jacob
Ryoo Seung-wan - Sagittario. Regista del film The Unjust.

mercoledì 11 maggio 2011 - Incontri

Lanciato dalla violenza di Die Bad e dal controverso ricorso agli effetti speciali di Arahan, nel 2006 era a Venezia con City of Violence, novello golden boy del tarantinismo con un gangster movie più pulp che mai. Dopo qualche incidente di percorso – in primis il disastroso flop dell'invisibile Dachimawa Lee – il sudcoreano Ryoo Seung-wan che torna a Udine per il Far East Film numero 13 è un regista più esperto e umile, giunto all'hard boiled dopo aver vissuto sulla sua pelle i contraccolpi dell'eclettismo. The Unjust è poliziesco solido e spietato, disamina di un sistema malato in cui un capitano di polizia e un procuratore si sfidano a colpi di scandali aprendo i rispettivi armadi, pieni zeppi di scheletri. Un intreccio che prende spunto da fatti realmente avvenuti:
"La vicenda è tratta da una storia vera – spiega Ryoo Seung-wan - in cui è intervenuto il Presidente in persona per sollecitare la polizia a trovare il colpevole e mettere fine al dramma di una nazione, lacerata da un caso di cronaca destabilizzante. Caso vuole che dopo una settimana la polizia abbia catturato il colpevole, con una rapidità che ha destato qualche sospetto. Lo sceneggiatore Park Hoon-jung (I Saw the Devil) ha riflettuto sul potere della politica e su come questo può arrivare a influenzare le indagini".

Parole forti come un film che non si ferma di fronte a nulla nella rappresentazione della corruzione; come mai a suo avviso nel cinema coreano si torna così spesso su un simile scenario di disperazione e di sfiducia verso le autorità?
"Personalmente credo che i motivi siano due: in primis queste storie hanno un grande effetto narrativo sul pubblico e funzionano da questo punto di vista, in secondo luogo fino a non molto tempo fa in Corea c'era una dittatura, quindi la gente aveva molta paura del potere politico e dei suoi metodi. Anche a distanza di decenni la paura nei confronti dell'autorità è presente nella gente".

Nella sua carriera ha spaziato su vari generi, come il fantasy di Arahan, per ritornare al crudo realismo dell'hard boiled di The Unjust. Lo si può considerare una sorta di punto d'arrivo di un decennio?
"Prima ero attratto da vari generi di film, dopo dieci anni ho perso un po' di interesse in questo senso e preferisco concentrarmi su come sono tratteggiati i personaggi piuttosto che sull'esplorazione di un genere nuovo. Arahan o City of Violence sono stati il frutto di interminabili riunioni che coinvolgevano tutti i coreografi e le maestranze, mentre in The Unjust potevo concentrarmi solo sugli attori: è stato un film molto più semplice e stimolante da girare".

Tra poliziotto e procuratore non ci sono eroi né villain, il comun denominatore è la doppiezza e la mancanza di scrupoli. È raro assistere a una simile mancanza di personaggi in cui lo spettatore possa immedesimarsi...
"I due protagonisti sono indubbiamente sporchi, ma preferisco mantenere una distanza dai miei personaggi, non giudicarli. Tutti noi da piccoli veniamo educati a dire sempre la verità e seguire la retta via, ma la vita ci insegna una lezione amara in questo senso. Questi personaggi sono un caso estremo, ma nel piccolo capita a tutti noi di dover mentire o di dover prendere decisioni discutibili".

Lavorare con una sceneggiatura altrui cosa ha rappresentato: uno stimolo ulteriore o un ostacolo?
"Uno stimolo. Essendo lo script opera di un'altra persona ero meno coinvolto del solito e potevo esercitare un occhio più critico e cogliere dove esaltare lo script o dove eventualmente cambiare qualcosa".

La città, la metropoli di Seoul, assume un ruolo speciale nel film, come fosse la vera protagonista in un certo senso.
"È così, volevo descrivere come sopravvivere in una città come Seoul. Una struttura enorme in cui il ritmo di sviluppo è impressionante. Chi rimane indietro in questa rincorsa frenetica allo sviluppo rimane indietro anche nella vita; il passato è distrutto e sostituito da una ricerca sfrenata del nuovo, dimenticando spesso da dove si è partiti".

Hwang Jeong-min, interprete del poliziotto, aveva già brillato insieme a Ryoo Seung-beom in un altro hard boiled estremo, il durissimo Bloody Ties. L'ha scelto per quell'interpretazione o per altre ragioni come contraltare di suo fratello Seung-beom?
"Volevo lavorare da tempo con Hwang Jeong-min, anche perché con mio fratello si è già confrontato diverse volte (Waikiki Brothers, oltre al succitato Bloody Ties): ero curioso di vedere cosa ne sarebbe uscito e come la loro dinamica avrebbe arricchito il film. Il viso di Hwang esprime la compresenza di un lato forte e di uno più fragile, che era esattamente quello che volevo nella doppiezza del capitano Choi Cheol-gi".

Il cinema thriller e noir coreano ci ha da sempre abituato a una dose generosa di violenza ma soprattutto di botte, tra schiaffi e colpi di tae kwon doo. The Unjust credo detenga il primato in fatto di calci sugli stinchi. A cosa si deve questa insistita fisicità con risoluzioni a pugni e calci delle contese?
"Come dicevo in precedenza, in fondo sono solo vent'anni che siamo usciti dalla dittatura: io stesso ho seguito un addestramento militare apposito per studenti e comunque è ancora forte nella società il retaggio militarista. Da cui derivano il rispetto cieco per i propri superiori e il fatto che l'insubordinazione possa tranquillamente essere punita in maniera fisica; i personaggi del film, ma direi i coreani in genere, è come se non si rendessero conto di questa anomalia, anche se mi rendo conto che per uno spettatore straniero queste scene possano risultare anche molto violente".

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