Non ero molto attratta da questo film: molto ne avevo letto e mi ero convinta che non fosse fatto per me. Da tempo, per esperienza ahimé, ero persuasa che elaborare un lutto significasse fondamentalmente riuscire a superare la nostra dipendenza dalla persona defunta. Chi abbia visto morire persone care e abbia provato, a un certo punto sollievo nel liberarsi di oggetti, che, pur sacri alla memoria, erano in grado di bloccare con la loro presenza l'urgenza di tornare a vivere, avrà immediatamente compreso la scena, atroce, ma di grandissima pregnanza metaforica, del piccolo Marcos, sopravvissuto al proprio gemello Jason, che si libera, malvolentieri, del berretto che era appartenuto al fratellino. Forse, non si può chiedere a chi non ha ancora avuto esperienza di queste cose, di comprenderle, ma certo questa scena, a mio avviso, contiene la chiave interpretativa dell'intero film. C'è anche un'altra scena, per me straordinaria e memorabile che ci aiuta a capire il film: gli allievi del corso di cucina possono gustare, solo bendati, gli ingredienti di certi piatti. La benda, l'oscurità che si deve produrre per apprezzare appieno la bontà e il gusto delle cose, non è che un invito a evitare di voler conoscere ciò che ci può rovinare la vita: chi, incautamente, prova a farlo, ne porterà le amare conseguenze, perché, in questo caso, si tratta di un sapere regressivo e subalterno. Certo, la visione che complessivamente emerge dal film non è ottimistica, né consolante: la vita, che è soggetta a rischi inimmaginabili e del tutto casuali, va vissuta e goduta sapendo che si tratta di una brevissima esperienza irripetibile al termine della quale non sappiamo né se esisterà qualche cosa, né se quelle che sono universalmente considerate visioni pre- morte possano in qualche misura promettere alcunché di plausibile o di reale. Non sappiamo nulla, questo è il vero problema, e perciò dobbiamo trovare il coraggio di assaggiare al buio le esperienze dolci, amare, sapide, insipide che la vita ci presenterà; il resto è malattia e morbosa curiosità: il "dono" del giovane George, che potrebbe essere una miniera di guadagno per lui, nasce da una malattia, provocata da un intervento umano, che avrebbe dovuto riportare il giovane in salute e anche questo, secondo me ha un significato evidentemente metaforico. Che poi i protagonisti del film confluiscano tutti insieme a Londra, alla presentazione del libro di Marie, e che quindi si trovino lì spinti, con motivazioni diverse, da un interesse comune, non credo costituisca un importante oggetto di indagine e di riflessione: è certo che, se i tre vorranno continuare a vivere dovranno pensare al loro futuro qui e ora, non "dopo", perché il dopo, comunque si presenterà, non ha nulla davvero da comunicare ai vivi. I sensitivi non sono buoni o cattivi, sono per lo più avidi sfruttatori del bisogno di consolazione di chi non ha il coraggio di vivere; George non lo farà, perché sa che dal dolore altrui non può nascere il gusto della vita; Marcos neppure, perché ha capito e alla fine ha ritrovato la madre; si spera che anche Marie rinunci alle sue indagini, per riuscire anche lei, finalmente a vivere serenamente la sua esistenza. Il film è bello, benissimo raccontato, pulito e classico nelle immagini, sufficientemente teso per mantenere viva l'attenzione e anche la commozione degli spettatori. Gli attori sono tutti molto bravi e diretti con mano fermissima (ma occorre dirlo?) da un Eastwood, più giovane che mai.
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