Advertisement
Due vite per caso: Aspettando la rivoluzione

Rabbia, precarietà e alienazione giovanile si incrociano.
di Edoardo Becattini

La potenza del caso
Isabella Ragonese (42 anni) 19 maggio 1981, Palermo (Italia) - Toro. Interpreta Sonia nel film di Alessandro Aronadio Due vite per caso.

giovedì 6 maggio 2010 - Incontri

La potenza del caso
Matteo tampona l'auto di due poliziotti, conosce la cameriera Sonia e si dà alla militanza politica. Anzi, no. Matteo non tampona l'auto dei due poliziotti, conosce la borghese Letizia e decide di entrare in accademia per diventare poliziotto. Se può bastare il battito d'ali di una farfalla per scatenare un uragano, al disorientamento giovanile figlio del precariato e della disoccupazione basta una frenata sotto la pioggia, un'immagine percepita dal telegiornale o un incontro piacevolmente fortuito per dare pieghe opposte alla propria esistenza. Due vite per caso apre la potenza del fato alla rabbia giovanile e agli scontri di piazza nell'unione di finzione e realtà, nell'utilizzo delle strutture della narrativa con la brutalità della cronaca quotidiana. Il beffardo destino che assiste il protagonista Matteo nel passaggio all'età adulta e lo fa scontrare con la storia contemporanea italiana è lo stesso che oggi fa sì che il suo interprete Lorenzo Balducci, per non esporsi in merito alle recenti inchieste giudiziarie che coinvolgono suo padre, decida di non presenziare alla conferenza stampa di un film che incrocia cronaca politica e critica cinematografica.

Come nasce il film?
Alessandro Aronadio: Il film nasce da un incontro fortuito con un racconto di Marco Bosonetto, “Un diciottenne perplesso”. Il racconto aveva una struttura doppia e casualmente mi è venuto incontro proprio nel momento in cui cercavo un soggetto per scrivere il mio primo lungometraggio. Senza ancora aver preso alcun impegno con qualche produzione, ho cercato di entrare in contatto con Marco basandomi solo sulle poche informazioni rinvenute sulla quarta di copertina. Attraverso delle piccole ricerche sono riuscito a parlare con sua madre a Cuneo e attraverso di lei, spacciandomi per un amico, ho finalmente trovato il suo numero. Pur non potendo dargli alcuna garanzia, ho cercato la sua collaborazione per scrivere la sceneggiatura. Marco è stato così folle da accettare e da lì abbiamo cominciato a scrivere: stesura dopo stesura ci siamo sempre più allontanati dal racconto, mantenendo solo l'idea della struttura doppia e cercando di allargarci alla cronaca quotidiana.

C'è un lato oscuro nei giovani d'oggi?
A. Aronadio: Il film cerca di fotografare la situazione di ristagno che sta vivendo in questo momento il nostro paese. Il nome del locale attorno a cui girano i due protagonisti, “Aspettando Godard”, ovviamente fa riferimento ad “Aspettando Godot”, e quindi all'idea che la giovinezza, che dovrebbe essere l'età delle prime scelte e della definizione del proprio cammino, stia diventando l'età dell'attesa. Indipendentemente dalle proprie capacità e dal successo negli studi, la società ci intima di sederci e di attendere. Il che comporta un prolungamento preoccupante dell'età della giovinezza, per cui oggi si è giovani fino anche a 35 o 38 anni. Allungare la giovinezza significa allungare il periodo della precarietà e dell'incertezza, questa fase in cui i ragazzi non riescono a trovare una posizione nella società e si esprimono attraverso la rabbia. Penso che la rabbia sia un sentimento importante, un sentimento che va mantenuto e trasformato in energia positiva. Purtroppo troppo spesso determina anche delle manifestazioni tragiche. I riferimenti di questo film, dal G8 all'uccisione di Filippo Raciti o Stefano Cucchi, dimostrano come all'interno di questa pentola in ebollizione ci sia qualcosa che tende a esplodere. Qualcosa che in una situazione di tumulto generale emerge e si esprime in maniera tragica, e che non possiamo considerare solo come una fatalità, ma che è sintomo di qualcosa.
Attraverso Matteo volevo raccontare la maggioranza silenziosa dei ragazzi: quella moltitudine di giovani che non si colora definitivamente, che non prende una direzione ben precisa. Viviamo in un'epoca nella quale i giovani non hanno più punti di riferimento: questa generazione avrebbe bisogno di maestri, buoni o cattivi, che risultano sempre più difficili da rintracciare. In questa sorta di sbandamento, di limbo esistenziale, aggrapparsi a dei personaggi diviene un modo per crearsi un'identità, un senso di appartenenza a qualcosa che comunque garantisce maggiore sicurezza.

E i tuoi maestri chi sono?
A. Aronadio: Quel che ho appreso dai registi con cui ho lavorato aiuto regista è soprattutto nel modo di approcciarsi agli attori, poi penso che ognuno debba sapersi creare sempre un'idea personale riguardo alla scena cui stai lavorando. Un regista con cui non ho lavorato ma che ho seguito durante un seminario è Gianni Amelio. Amelio mi ha insegnato il rispetto per la propria storia, l'idea di non invadere toppo il campo del racconto col proprio stile. Necessariamente in un'opera prima devi comunicare un tuo stile, convincere il pubblico a seguirti in una futura nuova impresa. Ho cercato così di trovare una giusta misura fra stile e racconto.

La scelta del cast?
A. Aronadio: Quando scrivi un film, hai sempre in testa i volti che vorresti dare ai tuoi personaggi, una sorta di “fantacast”. Lorenzo era già Matteo nella mia testa da quando lo avevo visto recitare in Gas di Luciano Melchionna, dove dimostrava quel senso di rabbia che volevo raccontare nella mia sceneggiatura. Così ho deciso di incontrarlo e in quel momento ho capito quanto fosse molto simile al personaggio: Lorenzo porta in sé una certa calma e tranquillità, ma anche una certa rabbia che è sempre pronta ad esplodere. Di conseguenza, per me è stato molto naturale sceglierlo fin dall'inizio ed è chiaro che essendo il protagonista assoluto del film, era fondamentale avere un rapporto di totale fiducia reciproca ed avere una totale sintonia. Per un regista esordiente, lavorare con attori noti come Lorenzo, Isabella o Monica Scattini è una dimostrazione di grande fiducia, che va ripagata attraverso un lavoro preciso.

Come vivi il tuo ruolo di icona della gioventù “precaria”?
Isabella Ragonese: Per una questione di età, mi capita spesso di affrontare film che tematizzano questa idea dell'attesa che vive anche il protagonista di questo film l'idea dell'attesa. L'attesa del lavoro (Tutta la vita davanti) e l'attesa sentimentale (Dieci inverni) sono figlie della stessa idea di “tirare a campare” che descrive un po' tutta una generazione. Facendo film sulla contemporaneità è normale toccare il precariato, sarebbe assurdo piuttosto non parlarne. Il problema come attrice è come si racconta questo mondo, la necessità di cambiare registro recitativo ad ogni film. In questo caso, mi ha convinto la personalità di Alessandro che, pur trattandosi di un ragazzo alla sua opera prima, era molto sicuro di sé ed è riuscito a trasmettere fiducia. Il ruolo di Sonia mi è piaciuto perché non è una semplice fidanzata (anche perché penso che la vera storia d'amore sia quella fra Riccardo e Lorenzo, questa amicizia che si mantiene durante tutto il film). Mi piaceva l'idea di poter puntare sull'energia, sul carattere di Sonia, la sua forza propositiva e il suo essere motore trainante della storia. Mi affascinava l'idea di incarnare una forza astratta, non definita in un film in cui la storia ha un'atmosfera quasi metafisica (anche grazie alla bella fotografia di Mario Amura) e in cui ogni ruolo, ogni piccola parte è stata affidata ad attori bravissimi, dando pienezza e verità al racconto.

Che ruolo hanno le donne in questo film?
Monica Scattini: La prima cosa che mi ha sorpreso di Alessandro è che fosse un regista che finalmente mi vedesse un ruolo non brillante, una donna forte che stimola determinazione nei suoi uomini. Appena ci siamo incontrati mi ha imposto un cambio radicale: via il capello biondo, via l'apparenza glamour per dare l'idea di una mamma comune, tranquilla e rassicurante. Poco prima dell'inizio delle riprese mi sono rotta l'omero ma ci tenevo talmente a partecipare che ho voluto prender parte comunque, una settimana dopo l'operazione, tant'è che la sofferenza che vedete nel personaggio è dovuta anche alla mia condizione...
I. Ragonese
: Vedendo il film nella sua totalità, può sembrare che le due donne siano meno determinanti. In realtà, in ogni vita parallela l'incontro con le ragazze è il momento che fa scattare i due differenti percorsi di Matteo, ne determina la sua coscienza politica o l'insofferenza per le istituzioni. Penso che la forza e anche la bravura di Lorenzo è stata anche quella di apportare un certo fascino e un certo carisma ad un personaggio che in un certo senso rappresenta un “uomo senza qualità”. Matteo è una persona che viene sempre trasportata dagli altri e sono proprio gli incontri casuali a determinare il suo percorso successivo. Il film racconta bene questa pagina bianca della vita di un giovane che viene scritta dagli altri: la funzione delle donne, una più vivace e impegnata politicamente, l'altra più borghese, influenza la sua esistenza, non solo la sua vita sentimentale.

Il ruolo della musica nel film?
A. Aronadio: Per me era fondamentale che la musica raccontasse i sentimenti del protagonista e, trattandosi di un protagonista piuttosto silenzioso, che racconta tutto nei suoi silenzi, la musica avrebbe dovuto parlare quando lui stava zitto e gridare quando decideva di parlare. Il compositore, Louis Siciliano, è riuscito così ad interpretare i sentimenti di Lorenzo/Matteo e l'atmosfera del film in modo straordinario, scrivendo una colonna sonora complessa e semplice alla stesso tempo, nel senso che ha una sua complessità tecnica ma riesce ad arrivare direttamente alle emozioni primarie.
Poi ci sono musiche non originali che sono pezzi di gruppi italiani senza etichetta che ho scelto perché avevano un valore e una qualità perfetta per raccontare gli ambienti notturni in cui si muovono i due protagonisti.

Il riferimento alla Nouvelle Vague
A. Aronadio: Il titolo originale del film doveva essere “Aspettando Godard”, un gioco di parole fra il senso di attesa dell'opera di Beckett e la persona di Jean-Luc Godard, il più rivoluzionario fra i registi della modernità. Aspettare Godard significa in un certo senso aspettare una rivoluzione nel cinema, un cambiamento radicale nel nostro modo di fare film. Allo stesso tempo, però, il riferimento più esplicito del film è a I quattrocento colpi di Truffaut, rispetto al quale volevo creare un umile confronto fra la storia del passaggio dall'infanzia all'adolescenza di Antoine Doinel e il passaggio all'età adulta di Matteo. La citazione del fermo immagine di Truffaut, ripresa anche dal personaggio di Tatti Sanguineti, “Con che diritto mi giudicate?”, l'ho voluta riprendere per cercare di mostrare come sia spesso la nostra uniforme a determinare il nostro carattere e come ogni nostro gesto, il nostro esser visto come vittima o come carnefice, possa dipendere dalla stessa radice: la rabbia giovanile.

Gallery


{{PaginaCaricata()}}

Home | Cinema | Database | Film | Calendario Uscite | MYMOVIESLIVE | Dvd | Tv | Box Office | Prossimamente | Trailer | Colonne sonore | MYmovies Club
Copyright© 2000 - 2024 MYmovies.it® - Mo-Net s.r.l. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione anche parziale. P.IVA: 05056400483
Licenza Siae n. 2792/I/2742 - Credits | Contatti | Normativa sulla privacy | Termini e condizioni d'uso | Accedi | Registrati