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Morgan, l'educazione secondo Jim (Morrison)

Il cantautore brianzolo parla di When you’re strange di Tom Dicillo.
di Ilaria Ravarino

Il photocall del film When you’re strange.

lunedì 20 giugno 2011 - Incontri

Il mio stato d’animo più ricorrente è la tristezza. Non ho mai la sensazione di essere a casa, di essere completamente tranquillo. È come se fossi cosciente di molte cose, ma sicuro di niente». Libero dai simbolismi della sua poesia, il cantante che spalancò le porte della percezione appare d’un tratto, nelle interviste, quel che è stato veramente: un re lucertola senza corona, un adolescente smarrito, persino ingenuo nel caricarsi cristologicamente sulle spalle la sofferenza dell’inquieto mondo giovanile a cavallo tra i ’60 e i ‘70. Raccontati per la prima volta dal documentario di Tom Dicillo When you’re strange, in 70 cinema dal 21 giugno e in onda dal 3 luglio su Studio Universal, in appena 54 mesi e 6 album "The Doors" cambiarono la storia del rock, guidati da un ragazzo-profeta destinato a spegnersi a sole 27 primavere, il 3 luglio di 40 anni fa. Presentato con successo al Sundance Film Festival, dove è stato accompagnato dalla voce narrante di Johnny Depp, e in onda sulla tv pubblica americana per la serie American Masters, When you’re strange arriva in Italia scortato, sponsorizzato e doppiato da Marco Castoldi in arte Morgan. Che di guai ne ha combinati la metà, la musica non l’ha rivoluzionata ma "The Doors" li ama per davvero. Con quella devozione grande, imitativa e un poco provinciale della piccola, televisiva e gossippara Italia musicale. Bisogna sapersi accontentare: del resto l’ultimo nostro rocker, Vasco, «per me è morto pure lui – dice Morgan – quando aveva 27 anni».

Lei è un fan dei "Doors"?
Morgan: Sì, i "Doors" e il loro leader Morrison li ho molto amati musicalmente. Morrison mi ha ispirato una grande voglia di fare: ho detto “voglia di fare”, non di “farmi”. Mi ha dato la propulsione a scrivere, a stare costantemente in moto, a caricarmi di energia. È come una stella, un grande fuoco che brucia ancora, un motore. La sua musica è contagiosa: quando da piccolo vidi il film di Oliver Stone The Doors, uscii dalla proiezione che avevo cinque canzoni nuove in testa. Ha vissuto fino in fondo, e forse per questo ha vissuto poco. Una simile intelligenza la si vorrebbe spalmare su una vita più lunga.

Non è il solo: a 27 anni se ne sono andati anche Janis Joplin, Jimi Hendrix...
... e Tenco. Quello dei 27 anni è un limite misterioso. Ma sono persone che hanno prodotto tantissimo materiale, e ancora oggi siamo qui a parlare di loro.

La vita di Jim Morrison fu turbolenta: in che modo può essere un modello positivo?
Morrison per me è un modello espressivo ed educativo. La sua gentilezza mi commuove. Si vede anche, nel documentario, quando durante il concerto di Miami i poliziotti invadono il palco: uno si immagina Morrison che aizza la folla, si immagina la rissa. E invece lui reagisce prendendo il microfono e intervistando il poliziotto, davanti a tutti. Come se fosse guidato dall’ingenuità, come se fosse incapace di concepire la violenza. Il film illumina questo aspetto di un uomo certamente problematico, ma troppo spesso descritto come un violento, esagitato, volgare aizzatore di folle. Tutt’altro. Quella è una lettura sbagliata, fatta da persone che sono incapaci di reggere la sua passionalità. Morrison era un uomo raro, un essere umano gentile, appassionato di poesia. Un uomo buono, con qualcosa di cristologico. Un martire ingiustamente crocifisso. La sua arte è importante anche dal punto di vista poetico: bisognerebbe studiare le sue poesie, come quelle di Lou Reed. Rimbaud era uno dei suoi, e dei miei, santi: Morrison era un simbolista, e l’hanno trattato come un volgare esibitore del proprio sesso. Come se di Morgan ci si ricordasse solo per l’intervista rilasciata a Max.

Morrison è stato più rivoluzionario nel comportamento o nel linguaggio?
Nel linguaggio, sicuramente. Viveva attaccato alle parole, le usava in modo profondo e dettagliato, oculato. Le parole più semplici sono le più ricche, e lui lo sapeva. Tutti i disastri che ha combinato li ha fatti usando parole pesanti come bombe. È lui che mi ha insegnato a gestire l’uso del linguaggio: anche in tv, la differenza tra me e Sgarbi è soprattutto nelle parole.

Ha messo del suo, nel testo del documentario?
Sì, in collaborazione con il direttore del doppiaggio. Era difficile soprattutto adattare i termini tecnici. Il doppiaggio doveva finire in un giorno, ma ce ne sono voluti quattro.

Morrison secondo lei sarebbe stato lo stesso senza droghe? Di sicuro sarebbe stato lo stesso senza l’alcool, che l’ha sfiancato. L’alcool è la droga peggiore: la disintossicazione è più pesante e difficile di quella dall’eroina. È legale, ma è una grande droga: chi mi rimprovera per la droga, con una birra in mano, per me è un coglione.

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