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Sbirri: Nella realtà della droga

Con un linguaggio sospeso fra film, documentario e reportage televisivo, Raoul Bova si immerge in prima persona nel traffico della droga milanese.
di Edoardo Becattini

Un progetto educativo e reale
Raoul Bova (52 anni) 14 agosto 1971, Roma (Italia) - Leone. Interpreta Matteo Gatti nel film di Roberto Burchielli Sbirri.

venerdì 3 aprile 2009 - Incontri

Un progetto educativo e reale
In principio furono gli americani verso la fine degli anni '80 ad inviare troupe televisive della Fox al seguito delle volanti di polizia delle varie città. Ma anche in Italia abbiamo sempre avuto un debole, televisivamente parlando, per la divisa e per i vari corpi di difesa dello stato, declinando i vari prodotti dal più impegnato film di valore sociale alla più frivola soap opera concepita come vetrina per corpi di immaturo talento. Dallo sforzo congiunto di cinema, televisione e di un produttore-attore che di divise se ne intende (Raoul Bova), arriva tra una settimana sui nostri schermi un'operazione che mira a raccontarci la "vita colta sul fatto" delle nostre forze dell'ordine e la realtà sociale contro cui combattono quotidianamente. Sbirri è un progetto sperimentale e a suo modo ambizioso per scoprire, ammonire ed educare sulla realtà bruta delle cose (in questo caso, dello spaccio di droga). Lavorando principalmente sul linguaggio del reportage televisivo, il film di Roberto Burchielli (documentarista "d'assalto" per la televisione e autore di molti programmi di successo) cerca di unire assieme l'estetica del "reality" e l'etica della pubblicità progresso, la finzione dell'attore e la sincerità della persona, la ripresa in HD e quella col videofonino, La squadra e Nella valle di Elah, e tenta di fare sintesi fra queste varie forme. Da parte sua, Raoul Bova ha messo tutto se stesso nel progetto: investendo personalmente assieme alla moglie Chiara Giordano sul talento "invisibile" di Burchielli e sul messaggio positivo che possono veicolare quelle forze dell'ordine che quotidianamente si pongono contro la (de)generazione di una gioventù bruciata, e lavorando di improvvisazione attoriale. Il risultato ha entusiasmato Medusa, che ha deciso di promuovere il film con una distribuzione di ben 200 copie.

Come si è sviluppato il progetto del film?
Raoul Bova (Matteo Gatti): Guardando una sera in televisione con mia moglie Chiara un film documentario di Roberto Burchielli, Cocaina, ho capito realmente cosa fosse la piaga del piccolo spaccio di droga, anche grazie ad un linguaggio da reportage estremamente coinvolgente. Lo shock che ci ha procurato la visione del film, come persone e come genitori, ci ha spinto ad incontrare Burchielli con il quale è nato da subito un rapporto di grande stima e fiducia reciproca. Sviluppando assieme l'idea di un nuovo progetto per raccontare il mondo della droga e di chi la combatte quotidianamente, abbiamo pensato di sperimentare, con un linguaggio simile a quello di Cocaina, il rapporto fra finzione e realtà. Da qui è nata l'idea di inserire un attore, un ipotetico cittadino X con la sua storia e i suoi drammi personali in un vero e proprio documentario che raccontasse il mondo della polizia e quello dei giovani che fanno uso di droghe. Abbiamo successivamente pensato che una figura ispirata ad un giornalista d'inchiesta come il reporter Fabrizio Gatti de L'espresso potesse essere il tramite ideale fra i due mondi.

Roberto Burchielli (regista): Si è trattato di un'operazione rischiosa anche da un punto di vista produttivo oltre che di incolumità. Quando sono venuti da me non due normali produttori ma prima di tutto due genitori preoccupati di voler fare qualcosa come Raoul e Chiara, ho prima di tutto concepito il film come un'opera educativa. Siamo partiti senza un copione vero e proprio ma solo con un canovaccio (sviluppato da me con la collaborazione di Duccio Camerini) che si evolveva giorno dopo giorno, scena dopo scena. Quello che era per noi importante era poi che l'aspetto didattico si integrasse con un linguaggio fortemente realistico. Parlare con ragazzi non di diciotto ma anche di dieci anni che ti raccontano la loro esperienza con le droghe è stato scioccante ed è servito a farci capire che stavamo seguendo la via più giusta, quella che oltre a raccontare di cosa è fatta la realtà della droga potesse esprimerla con un linguaggio dinamico di un film spettacolare, accessibile soprattutto al pubblico più giovane.

Come è stato possibile lavorare a stretto contatto con le forze dell'ordine?
R. Burchielli: Tutto quello che si vede nel film è stato vissuto da noi e da Raoul in primissima persona. Molte delle riprese inserite nel film sono realizzate dallo stesso Raoul con la sua videocamera personale. Tutto ciò è stato possibile grazie alla totale disponibilità delle forze di polizia e soprattutto della sezione antidroga della Squadra Mobile di Milano, persone con le quali avevo già sviluppato un rapporto privilegiato nel realizzare Cocaina. L'integrità da un punto di vista legale è stata garantita dalla loro fiducia nel progetto e dal fatto che non è stata violata l'identità di nessuna delle persone coinvolte, cui abbiamo prontamente cancellato digitalmente i volti e modificato la voce. Alla fine questo espediente tecnico ha anche una forte resa estetica, contribuendo a generare questo senso di perdita di identità generato dall'uso di droghe.

R. Bova: Inoltre, contribuendo solo alle operazioni sul piccolo spaccio, abbiamo lavorato in condizioni di semi-sicurezza. Non che non ci fosse ansia da parte mia e degli operatori per il tipo di situazioni in cui ci trovavamo spesso coinvolti, ma la nostra concentrazione era soprattutto volta a non intralciare le loro operazioni e a farsi possibilmente più invisibili.

Giampaolo Letta (amm. delegato Medusa): Nonostante il contributo delle forze dell'ordine sia stato fondamentale, nessuno di loro ci tiene a sfruttare il film come spazio pubblicitario. Abbiamo lavorato in piena sintonia durante la fase di produzione, ma hanno deciso di fare un passo indietro una volta terminate le riprese e far parlare solo il film ed io ho pieno rispetto per questa decisione.

L'esperienza degli attori Luca Angeletti (Luca Martani): Da attore, penso sia un'esperienza molto rara lavorare per un film come questo: partire da un canovaccio e lavorare su una costruzione passo dopo passo della storia del film, ma mano che le riprese si compenetrano con un nuovo elemento prelevato dalla realtà. E' stato un lavoro molto complesso, quasi un'improvvisazione di tipo teatrale, in cui si arriva a creare delle situazioni e delle sensazioni partendo da un'incertezza, da uno sguardo reciproco, da un'intesa non detta.

Simonetta Solder (Sveva Gatti): Ho cominciato le riprese del film preparando un piatto di pasta. Questo per dire come il clima fosse ordinario e genuino. Come una troupe molto ridotta ed estremamente invisibile ci aiutasse ad entrare in maggior contatto con noi stessi come punto di partenza per creare un personaggio.

A. Sperduti (Marco Gatti): E' stato bellissimo lavorare così spontaneamente e oter sperimentare continuamente. Ho vissuto il mio personaggio (il figlio di Bova vittima di una pastiglia di ecstasy) molto da vicino, perché è molto simile a me: è un ragazzo tranquillo a cui piace divertirsi con gli amici e che vuole poter vivere liberamente le proprie esperienze. Mi ha molto colpito notare così da vicino la leggerezza con cui ragazzi della mia età vivono il consumo di droghe. Il fatto che la storia che il film racconta, che un ragazzo di sedici anni sia davvero morto per aver preso una sola pasticca di ectasy non possiamo considerarlo un caso isolato. E' qualcosa con cui tutti noi giovani dovremmo confrontarci.

R. Bova: Da produttore sono molto grato agli attori per aver investito così tanta passione ed energia in un progetto nuovo e rischioso come questo, fatto alla base più di sensazioni e di idee che di una solida sceneggiatura.

Rispetto ai personaggi che hai interpretato in passato, che rapporto ha Matteo Gatti?
R.Bova: Rispetto al passato c'è in me una consapevolezza differente ed una paura più vivida per questo tipo di problemi, derivata dall'essere diventato padre. La nostra società è come se vivesse l'oscurità di un pessimismo totale che si riflette soprattutto nel disagio dei giovani. Far vedere loro come lavorano i poliziotti e tutti l'impegno che mettono per contribuire ad una società migliore penso possa essere un grande esempio positivo. In un certo senso è una sfida portare al cinema degli eroi normali, delle persone estremamente comuni che fanno tutti i giorni qualcosa di straordinario. In particolare, rispetto agli altri ruoli da poliziotto che interpretato per fiction e film, in Sbirri ho sentito per la prima volta la presenza della realtà, con tutte le sue asperità e i suoi piccoli drammi. Mentre giravamo con la massima discrezione in casa di famiglie benestanti che dovevano relazionarsi col problema di scoprire che il proprio figlio fosse uno spacciatore, l'impatto emotivo era devastante, perché vissuto da me in prima persona e non attraverso la rappresentazione di un altro attore.
L'esperienza americana è stata molto formativa in questo senso, soprattutto perché mi ha insegnato a non settorializzare il talento, a non limitare la propria esperienza artistica ad un solo genere. Come attore era infatti da tempo che stavo cercando un progetto in cui potermi esprimere al meglio, lavorando su me stesso proprio come insegnano all'Actor's Studio e allo stesso tempo a raggiungere questa maturità in un contesto vero, reale, dove non si aveva mai la libertà di potersi sentir parte di un universo della finzione.

Non si può arrivare a pensare che la presenza di telecamere abbia in qualche modo influenzato l'operare dei poliziotti?
R. Bova: Da parte mia, facevo continuamente domande, anche intime e personali, ai membri della squadra dell'U.O.C.D. Per sondare la loro psicologia e capire quanto la mia presenza o quella di un operatore potesse creargli imbarazzo, e devo dire che, nelle quattro settimane che sono stato a stretto contatto con loro, non ho mai notato alcun cedimento all'espressione della loro personalità. Quindi, o sono stati sinceri, oppure significa che sono tutti degli attori da Oscar!

R. Burchielli: Bisogna dire poi che durante le operazioni antidroga l'adrenalina è tanta e il rischio ti impedisce di poter fingere. Queste persone conoscono le loro responsabilità e nessuno potrebbe mai far fallire un'operazione per colpa della presenza di una telecamera.

Da parte di Medusa c'è per caso un inedito interesse per questo tipo di operazioni "documentarie"?
G. Letta: Il progetto nasce come un prodotto concepito per la televisione sviluppato da Mediaset, ma guardando i primi risultati in post-produzione abbiamo vissuto questo linguaggio sperimentale, commistione di film, reportage e documentario con un impatto straordinario e abbiamo deciso di investire da parte nostra nella dignità del progetto. Anche per noi, Sbirri rappresenta un esperimento nel mercato della distribuzione e gli abbiamo garantito un'ampia distribuzione (il film verrà distribuito in 200 copie), in modo da garantirgli la giusta visibilità e assolvere così la funzione educativa che esso si propone. Una funzione importante perché concepita con un linguaggio diverso da quello delle ordinarie campagne pubblicitarie.

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