La bocca del lupo

Un film di Pietro Marcello. Con Vincenzo Motta, Mary Monaco, Franco Leo Documentario drammatico, durata 76 min. - Italia 2009. - Bim Distribuzione uscita venerdì 19 febbraio 2010. MYMONETRO La bocca del lupo * * * 1/2 - valutazione media: 3,49 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

L'amore fra un trans e un bandito al cinema con l'aiuto dei gesuiti

di Mario Serenellini Il Venerdì di Repubblica

È il film dei record. Primo titolo italiano, in 27 edizioni del Torino Film Festival, a vincere il Gran Premio (con aggiunta del Fipresci dell’entusiasta stampa internazionale). Primo titolo a partecipare a concorsi ora di fiction, ora di documentari. Dopo Torino, si è guadagnato il «Vittorio de Seta» per il miglior documentario al neofestival di Felice Laudadio a Bari e, in quanto documentario, concorrerà dal 18 al 30 marzo al Cinéma du réel al Centre Pompidou a Parigi. Inoltre, in attesa dell’uscita in sala il 19 febbraio, distribuito dalla Bim, per la prima volta nella storia del cinema italiano sarà visibile in streaming da trecento eletti, il 15 febbraio alle 21.10 sul web.
La bocca del lupo, di Pietro Marcello, casertano, 34 anni, realizzato con soli centomila euro, protagonisti due derelitti pasoliniani in una Genova ad alto voltaggio poetico, si confronta ora con i kolossal in concorso al Forum della 60° Berlinale (da ieri al 21). «Sono partito da una storia vera, con i miei due protagonisti, Vincenzo Motta e Mary Monaco, che interpretano se stessi» spiega il regista, che è a Berlino con gli interpreti e con Dario Zonta, critico e confondatore dell’Avventurosa Film, produzione indipendente, qui fiancheggiata da Rai Cinema, Babe Film e dall’Indigo Film di Nicola Giuliano.
Il soggetto di La bocca del lupo è evocato nella motivazione della giuria di Bari: «Un emigrante siciliano, dopo quattordici anni di carcere, dove ha incontrato Mary, trans detenuto per droga, torna a Genova dove finalmente riabbraccia la sua amata che l’ha pazientemente atteso». «È la storia d’un amore nato nel dolore» sintetizza il regista, «nella macerazione di un’attesa, prima di ritrovarsi all’uscita dal carcere».
Come vivono nella realtà Enzo e Mary? «Adesso Enzo è un uomo libero, lavora al Bar Frisco, nell’angiporto di Genova. Mary sta a casa, lo stesso minuscolo “nido” del film. Lo scorso dicembre ci siamo ritrovati a Genova, per una proiezione speciale nella loro città, ora divenuta anche un po’ mia. Enzo e Mary hanno visto nel film il loro riscatto sociale: non smettono di ripetermi che è quanto di meglio hanno fatto nella vita».
I recenti scandali romani rischiano di avvolgere di un alone improprio il film... «Il film si protegge da solo. Io non affronto l’aspetto omosessuale. Per me la sessualità è parte intera dell’esistenza, non un suo lato pruriginoso o scandalistico. Enzo e Mary sono due persone che hanno avuto una vita difficile: si sono uniti anche per proteggersi a vicenda. Della società sono i reietti, i diversi: un ex detenuto e un transessuale. Mary, cresciuta in una famiglia romana perbene, a 17 anni è andata via per trasferirsi a Genova, dove esisteva una comunità trans. Enzo, cinquantenne siciliano, noto come Enzo Roccia e Enzo Baffo, viene dal sottoproletariato, quello duro, ormai scomparso e idealizzato da Pasolini: è cresciuto in via Prè, figlio di un mito nero della Genova vecchia, il venditore Pippo (“accendini, sigarette, macchinette, bombe a mano”), che non metteva insieme due parole in italiano».
Come li ha incontrati? «Per caso. Un giorno mi sono trovato davanti Enzo, una faccia da favola. Analfabeta, aveva imparato a leggere e scrivere in carcere: trent’anni di galera, per rapine. Una vita d’anarcoide, trascorsa a giocare a guardie e ladri. Vedendolo la prima volta, ho pensato a Eddie Constantine in Alphaville di Godard. A Mary siamo arrivati per gradi, con delicatezza. L’intervista finale alla coppia è il risultato di sette mesi di lavoro».
Da Caserta a Genova: com’è nato La bocca del lupo? «È stata la Fondazione dei padri gesuiti San Marcellino, che dal dopoguerra assiste i raminghi e gli indigenti, a invitarmi a Genova per realizzare un film. Il primo periodo è stato di osservazione. Conoscevo la città solo dai racconti un po’ mitici di mio padre, un marittimo che dal ponte dei Mille si imbarcava per l’America: per tutta la sua giovinezza Genova è stata la città ideale. Mi raccontava di quanto fosse bella, dell’animata città vecchia, delle tripperie, del suo cielo. Io ho conosciuto un’altra Genova, silenziosa e unica, una città del nord che guarda a sud: stretta tra il mare e le montagne, le campagne e i porti, la dismissione industriale e la modernità terziaria».
È la Genova del presente che lei ha provato a raccontare? «Sì, una città di confine e di mare: la sua gente, la storia, le ombre dei luoghi scomparsi, le memorie impresse nelle pietre di Sottoripa, recuperate, con un filo di nostalgia per il Novecento perduto, attraverso immagini di repertorio, i filmini spesso amatoniali di genovesi d’antica generazione, trovati e montati da Sara Fgaier. Desiderio dei gesuiti era che raccontassi nel film non l’attività della Fondazione quanto il mondo cui essa si rivolge. Mi hanno messo a disposizione un piccolo appartamento, gli stessi locali che ospitano gli assistiti della San Marcellino. Da lì ho cominciato a esplorare la città vecchia. Non fosse stato per i gesuiti, non avrei mai pensato di fare un film a Genova: non ci sono riuscito a Napoli, che è la città della mia formazione...».
da Il Venerdì di Repubblica, 12 febbraio 2010


di Mario Serenellini, 12 febbraio 2010

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