laulilla
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sabato 27 marzo 2010
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le prigioni di malik
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Di Malik sappiamo pochissime cose: è un franco-marocchino diciannovenne, che, senza genitori, senza istruzione e senza radici, si trova nelle ideali condizioni per approdare, alla prima occasione, al carcere, dove appunto lo troviamo fin dall'inizio del film, condannato a sei anni di reclusione. La struttura che lo ospita non è tra le peggiori: vi funziona una scuola, i detenuti possono vedere i loro avvocati, le celle sono un po' squallide, ma per buona condotta ogni prigioniero può godere di sistemazioni più confortevoli, con tanto di frigorifero e televisore, nonché di un regime di semilibertà.
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Di Malik sappiamo pochissime cose: è un franco-marocchino diciannovenne, che, senza genitori, senza istruzione e senza radici, si trova nelle ideali condizioni per approdare, alla prima occasione, al carcere, dove appunto lo troviamo fin dall'inizio del film, condannato a sei anni di reclusione. La struttura che lo ospita non è tra le peggiori: vi funziona una scuola, i detenuti possono vedere i loro avvocati, le celle sono un po' squallide, ma per buona condotta ogni prigioniero può godere di sistemazioni più confortevoli, con tanto di frigorifero e televisore, nonché di un regime di semilibertà. Purtroppo però la vita del carcere non è regolata dalla legge dello stato né dagli uomini che dovrebbero farla applicare, ma dal clan dei corsi che, attraverso delitti e pestaggi, riesce a prevalere sul clan meno numeroso degli arabi.. Se ne accorgerà subito Malik, cui viene richiesto da Cesar Luciani, il capo corso temuto e rispettato, di uccidere Reyeb, arabo, se non vuole a sua volta rimetterci la pelle. Malik, per quanto riluttante, compie l'atroce delitto, imparando presto ad adattarsi alla logica e alle gerarchie che dominano incontrastate, ottenendo protezione, ma ricevendo anche umiliazioni di ogni genere, perché, in quanto arabo, non viene mai del tutto accettato. Il suo tempo in prigione, però sarà l'occasione per imparare le lingue (compreso il corso, carta vincente per inserirsi nella malavita), e per apprendere anche i meccanismi che assicurano la supremazia nel mondo degli affari malavitosi. Uscirà quindi, ancora molto giovane, ormai nuovo boss della malavita, dopo aver fatto una scelta di campo contro quel clan che l'aveva umiliato e offeso e contro quel Cesar Luciani che avrebbe potuto rappresentare per lui il padre che forse avrebbe voluto, ma che mai lo diventerà, per l'invincibile e protervo razzismo che lo connota. Quel barlume di rimorso, che all'interno del carcere era emerso attraverso incubi e allucinazioni, in qualche modo sopravvive grazie proprio alla scelta identitaria, che egli compie, dimostrando di aver fatto tesoro, assimilandoli, dei consigli di Reyeb. Il regista ci indica, con un memorabile e durissimo racconto, un percorso di devianza che si perfeziona proprio là dove avrebbe dovuto essere contenuta, in un film lungo, in cui si snoda senza fretta il processo di formazione criminale del protagonista, anche con scene terribili e agghiaccianti, raccontate con impassibile e distaccata presa d'atto. Bellissima recitazione degli attori: Tahar Rahim, in primo luogo, splendido alla prima recita, nei panni di un Malik, tenero e feroce; Niels Arestrup, in secondo luogo, ottimo Luciani.
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ocram
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venerdì 26 marzo 2010
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mie prigioni
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Film che ho visto , sull'onda emotiva di una critica che osannara Audiard come un grande regista ( avevano ragione ) , "il profeta " si muove principalmente su un binario parallelo di significati .
Da una parte la forza visiva immediata e poco criptica e dall'altra un aspetto metaforico studiato ed insito nella personalità del protagonista , rimando costante alla storia di Malik
Egli è un ingenuo ragazzo, capitato nel regno di Brencourt ( la prigione appunto ) per aver aggredito un poliziotto . Sul suo volto e sul suo corpo qualche segno di percossa , cicatrici che lo marchiano già come elemento differente dalla normalità degli individui . Elemento sospetto , già malvisto dalla guardia che dentro il carcere comincia ad interrogarlo , prendendo le sue generalità .
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Film che ho visto , sull'onda emotiva di una critica che osannara Audiard come un grande regista ( avevano ragione ) , "il profeta " si muove principalmente su un binario parallelo di significati .
Da una parte la forza visiva immediata e poco criptica e dall'altra un aspetto metaforico studiato ed insito nella personalità del protagonista , rimando costante alla storia di Malik
Egli è un ingenuo ragazzo, capitato nel regno di Brencourt ( la prigione appunto ) per aver aggredito un poliziotto . Sul suo volto e sul suo corpo qualche segno di percossa , cicatrici che lo marchiano già come elemento differente dalla normalità degli individui . Elemento sospetto , già malvisto dalla guardia che dentro il carcere comincia ad interrogarlo , prendendo le sue generalità .
Un film quindi esemplare , dotato di una chiarezza esemplificativa di uno stile di vita ai margini e non paragonabile alla vita ordinaria . Un senso di compattezza che percorre in maniera fluida tutta la durata del film ( non breve di certo ma nemmeno questo è stato personalmente un problema per quel che riguarda la sua visione )
Il protagonista Malik da parte estranea diventa una parte integrante del sistema di prigionia . Assimilazione progressiva la sua , che lo rendono una cellula vitale di un sistema esteriormente claustrofobico ed interiormente disperato ( e disperante )
Basti vedere le inquadrature di Audiard di un solo esterno per capire il senso di isolamento individuale che regna sovrano . L'inquadratura della neve che è caduta nel cortile esterno della prigione per esempio ( ad un anno esatto di distanza dalla prigionia di Malik) . Scena dotata di silenzio e di impatto visivo impressionante : una sola inquadratura dall'altro a rappresentare l'horror vacui che alberga in un luogo in cui non ci sono apparenti vie d'uscita e le persone vivono un'unica realtà . Le persone che passeggiano in mezzo a questo manto bianco . Pochi secondi , un impatto tremendo ed al tempo stesso rivelatore .
Una realtà ancorata e atemporale : si vive solo nel presente , non c'è il passato (lasciato alle spalle dopo l'ingresso nella prigione ) , il futuro resta sfuocato ed impercettibile
Così è anche Malik e così è la sua coscienza , che si incolla al momento , a quel presente fatto di attimi , di costruzioni , di tentativi di fuga . L'unica reminiscenza è il ricordo di un riformatorio ,quello appunto del protagonista , non c'è nemmeno un dopo. Se si esclude infatti il flebile concetto della reintegrazione nella società , la prigione ingloba dentro i propri crudi meccanismi l'idea di tempo relativo ed imperfetto .
Il regime interiorizza ogni concetto, ogni idea di libertà (utopico concetto a quanto pare )
Penso che metaforizzando lievemente il concetto di prigione , sia piuttosto semplice capire come la prigione di Malik , al di là della tecnica minimalistica delle scene , che poco spazio lasciano alla fantasia ( nullo direi ) , si può evincere l'idea che la prigione è uno stato mentale oltre che fisico . Lo si capisce bene anche dalle parole di Ryad ,che parla a Malik da un non mondo. Non esiste la libertà , semplicemente perchè non esistono corpi liberi
"Il profeta" è al momento il piu bel film che io abbia mai visto quest'anno . E' un film sicuramente crudo , che non lascia spazio a facili sentimentalismi ed ai buonismi demagogici.Audiard è bravo a non cadere in semplici banalità e dipinge strepitosamente una realtà maledetta.Un film da vedere tutto d'un fiato
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(di marquise)
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domenico a
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venerdì 26 marzo 2010
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ottimo film, ma brecht ?
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“ Il profeta “ trova l'equilibrio tra realismo e cinema di genere con occhio a quello americano, la trasfigurazione mitica della realtà ricorda un certo cinema e teatro della Repubblica di Weimar. Si potrebbe anche dire che è una metafora della società francese. E’un film molto rigoroso, preciso nelle descrizioni e privo di qualsiasi compiacimento ma forse con qualche passaggio intellettual-narcistico e che rende il protagonista nell’arco di poco tempo da proletario analfabeta e poco sveglio a un Richelieu delle carceri. Un personaggio brecktiano nello stile di Mack il Coltello de “ l’Opera da Tre Soldi “ che riverbera nella musca finale di Kurt Weill.
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“ Il profeta “ trova l'equilibrio tra realismo e cinema di genere con occhio a quello americano, la trasfigurazione mitica della realtà ricorda un certo cinema e teatro della Repubblica di Weimar. Si potrebbe anche dire che è una metafora della società francese. E’un film molto rigoroso, preciso nelle descrizioni e privo di qualsiasi compiacimento ma forse con qualche passaggio intellettual-narcistico e che rende il protagonista nell’arco di poco tempo da proletario analfabeta e poco sveglio a un Richelieu delle carceri. Un personaggio brecktiano nello stile di Mack il Coltello de “ l’Opera da Tre Soldi “ che riverbera nella musca finale di Kurt Weill. Essenziale per la resa finale del film la fotografia importante e autorale
Malik è un giovane magrebino appena maggiorenne, semianalfabeta, fragile e senza famiglia né identità culturale. Finisce in prigione con una condanna a sei anni. Si ritrova in mezzo alla solita realtà carceraria ma lui privo di identità se ne sta da solo, non si inserisce né tra gli arabi né tra i francesi e involontariamente è coinvolto da una banda di corsi che prima lottavano per l’indipendenza del loro Paese ed oggi sono una accolita di delinquenti alla stregua dei mafiosi e dei marsigliesi. Per salvare la pelle ed essere protetto è costretto a commettere un omicidio. Si potrebbe quindi definire quasi un ‘ romanzo di formazione ‘, un percorso fatto alla rovescia, un’educazione al male tra padri e padroni. Dove da quasi subito il giovane Malik apprende a non aver alcun riguardo o rimorso e a mettersi al centro di molti affari loschi con tutti, anche aizzandoli gli uni contro gli altri. Come dicevamo prima, si trasforma con naturalezza in un’eminenza nera del male forse anche alla ricerca della propria identità nel gioco disperato della sopravvivenza. Trascorre sei anni in carcere come fosse un’università, da dove esce profondamente trasformato. In meglio, tenendo presente lo stato in cui è entrato; questo meglio sono le forme del peggio, perché impara a essere, e a fingere di essere, servile, servizievole, ruffiano, confidente, assassino. Impara tutte le regole e le rispetta fino a che non può modificarle a suo uso e consumo: impara ad essere invisibile, sa ascoltare in varie lingue, parla poco, coglie ogni possibilità per sopravvivere, è amico di tutti ma conta solo su se stesso, non ha debiti di riconoscenza o riguardi per nessuno. E dopo sei anni esce sapendo scrivere e leggere, conoscendo gli uomini e le loro debolezze, sa il valore corruttore del danaro e se ne serve. E all’uscita c’è la sua vita e il suo doppio, realtà e apparenza, bisogno e desiderio. All’uscita, una donna povera con un bambino, ma anche tre fuoristrada che li seguono rispettosamente a distanza. Due facce della stessa medaglia.
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malik
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venerdì 26 marzo 2010
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un prophète
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Audiard si conferma, dopo "Tutti i battiti del mio cuore" e "Sulle mie labbra", il miglior regista francese aggiungendo con "Il profeta" un tassello fondamentale alla sua filmografia. Film che prende a piene mani dal genere carcerario-gangster, riuscendo trovare un miracoloso equilibrio per cui, nonostante ricordi tante opere precedenti, questo sia un film unico nella sua specie. Tahar Rahim e Niels Arestrup sontuosi. Uno spettacolo visivo imperdibile.
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kaipy
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giovedì 25 marzo 2010
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il paradosso del lieto fine
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la storia è molto bella, e molto ben narrata. certo il film accusa ad un certo punto una certa stanchezza, la spirale di violenza e la ripetitività della vita carceraria appare inarrestabile.
non mancano scene molto forti e raccapriccianti, ma la prigione non è certo un luogo per signorine.
il progagonista è perfetto, ed è una fortuna perchè appare quasi in ogni fotogramma.
una cosa molto ben riuscita è la rete di relazioni tra il carcere e il mondo esterno.
una scuola di vita. ma che vita?
impossibile non porsi delle domande. sulle carceri. sulla rieducazione alla vita civile.
il nostro protagonista percorre la strada contraria. entra giovane,innocente e analfabeta esce uomo, assassino e forgiato alle nuove regole del gioco.
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la storia è molto bella, e molto ben narrata. certo il film accusa ad un certo punto una certa stanchezza, la spirale di violenza e la ripetitività della vita carceraria appare inarrestabile.
non mancano scene molto forti e raccapriccianti, ma la prigione non è certo un luogo per signorine.
il progagonista è perfetto, ed è una fortuna perchè appare quasi in ogni fotogramma.
una cosa molto ben riuscita è la rete di relazioni tra il carcere e il mondo esterno.
una scuola di vita. ma che vita?
impossibile non porsi delle domande. sulle carceri. sulla rieducazione alla vita civile.
il nostro protagonista percorre la strada contraria. entra giovane,innocente e analfabeta esce uomo, assassino e forgiato alle nuove regole del gioco.
eppure di fronte a quel mondo, come non parteggiare per lui? come non essere contenti della sua sopravvivenza? come non consideralo amaramente un lieto fine?
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kronos
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giovedì 25 marzo 2010
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self made man
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La parabola del Franco-arabo Malik, che da nullità ascende fino a spodestare il potere autoctono, potrebbe essere una voluta metafora della Francia odierna (e dell'Europa del prossimo futuro).
Una metafora sviluppata con indiscutibile qualità e potenza cinematografica.
Dove il film convince a metà, e trovo strano che la critica giornalistica non abbia voluto scriverne, è in una sceneggiatura che non riesce (non vuole?) mettere bene a fuoco l'arzigogolata lotta tra bande che determinerà il successo del protagonista.
Soprattutto nella parte centrale, quando Malik esce dal carcere in libertà provvisoria, risulta impossibile discernere i dettagli dei complessi intrighi criminali, e questo finisce per ridurre l'attenzione di chi guarda.
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La parabola del Franco-arabo Malik, che da nullità ascende fino a spodestare il potere autoctono, potrebbe essere una voluta metafora della Francia odierna (e dell'Europa del prossimo futuro).
Una metafora sviluppata con indiscutibile qualità e potenza cinematografica.
Dove il film convince a metà, e trovo strano che la critica giornalistica non abbia voluto scriverne, è in una sceneggiatura che non riesce (non vuole?) mettere bene a fuoco l'arzigogolata lotta tra bande che determinerà il successo del protagonista.
Soprattutto nella parte centrale, quando Malik esce dal carcere in libertà provvisoria, risulta impossibile discernere i dettagli dei complessi intrighi criminali, e questo finisce per ridurre l'attenzione di chi guarda. Anche l'episodio, evidentemente simbolico, che da il titolo alla pellicola appare forse un pò gratuito e forzato.
Nell'insieme uno script un poco più lineare avrebbe giovato al film, contribuendo anche a ridurne la durata, eccessiva.
Ma "Il Profeta" è comunque un'opera memorabile: ottimamente interpretata, tecnicamente ed esteticamente controllatissima, iperrealista ma anche capace d'azzeccati squarci surreali, molto dura e violenta ma senza essere dozzinale.
A mio avviso con questo film Audiard si conferma il leader della new wave del cinema transalpino.
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brian77
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giovedì 25 marzo 2010
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finalmente
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Finalmente un bel film, alla maniera classica: un personaggio, una storia, un racconto che cattura attraverso il suo sviluppo e che quindi ti inchioda davvero - al contrario dal falso cinema che cerca di farti passare il tempo con la finta velocità, in realtà noiosa perché superficiale e ripetitiva. Manca una vera coerenza di regia, certi flashback sono gratuiti e banali: Audiard non è un gran regista, ma qui ha saputo raccontarci bene una storia acutissima, molto ben recitata, e ha centrato il miglior film della sua carriera. E poi non è mai ammiccante, non stizza mai l'occhio allo spettatore per ingraziarselo con una scorciatoia, come invece fanno in troppi. Tira dritto, perché ha una storia forte da raccontare e sa come farlo.
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Finalmente un bel film, alla maniera classica: un personaggio, una storia, un racconto che cattura attraverso il suo sviluppo e che quindi ti inchioda davvero - al contrario dal falso cinema che cerca di farti passare il tempo con la finta velocità, in realtà noiosa perché superficiale e ripetitiva. Manca una vera coerenza di regia, certi flashback sono gratuiti e banali: Audiard non è un gran regista, ma qui ha saputo raccontarci bene una storia acutissima, molto ben recitata, e ha centrato il miglior film della sua carriera. E poi non è mai ammiccante, non stizza mai l'occhio allo spettatore per ingraziarselo con una scorciatoia, come invece fanno in troppi. Tira dritto, perché ha una storia forte da raccontare e sa come farlo.
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pipay
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mercoledì 24 marzo 2010
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negli abissi dell'illecito. ma manca qualcosa
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Un film che ci porta negli abissi della immoralità e dell'illecito. Un film violento, crudo, sferzante. Ma niente che non si sia già visto... A fronte di immagini "forti", di fatti di orrenda brutalità e disperazione, resta uno sbilanciamento, un messaggio di scarso spessore, vago e inconcludente, che penalizza in parte un lavoro di regia e di sceneggiatura che poteva volare più in alto e soddisfare meglio lo spettatore.
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francesca50
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martedì 23 marzo 2010
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la galera
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Il film si rivela ottimo per la perfetta ambientazione iniziale che fa comprendere cosa vuol dire galera.Ottima l'interpretazione dei vari attori e effettivamente il film appare come un romanzo di formazione. Interessante è anche l'ambiente esterno che fa capire come il delinquente possa peggiorare nel passaggio tra dentro e fuori. ma allora la soluzione qual è? Non la intravedo. Rendere meno facile la corruzione delle guardie con ispezioni improvvise? cambiare continuamente celle o addirittura prigione ai detenuti? mettere la pena di morte se si è recidivi (si fa per dire)? eliminare i permessi-premio? oppure è la solita denuncia della sinistra che vede le pene come brutte e cattive? Forse la soluzione è nel creare maggior dialogo con persone atte al recupero che nel film sembrano del tutto assenti.
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Il film si rivela ottimo per la perfetta ambientazione iniziale che fa comprendere cosa vuol dire galera.Ottima l'interpretazione dei vari attori e effettivamente il film appare come un romanzo di formazione. Interessante è anche l'ambiente esterno che fa capire come il delinquente possa peggiorare nel passaggio tra dentro e fuori. ma allora la soluzione qual è? Non la intravedo. Rendere meno facile la corruzione delle guardie con ispezioni improvvise? cambiare continuamente celle o addirittura prigione ai detenuti? mettere la pena di morte se si è recidivi (si fa per dire)? eliminare i permessi-premio? oppure è la solita denuncia della sinistra che vede le pene come brutte e cattive? Forse la soluzione è nel creare maggior dialogo con persone atte al recupero che nel film sembrano del tutto assenti.
Comunque il film, che indubbiamente vuol far riflettere sul difficile recupero di chi è condannato a lunghe pene detentive, si rivela un po' troppo lungo e talora mi è apparso ripetitivo. Sarà che ero stanca ma è un film che in taluni tratti mi ha annoiato. L'idea era buona, ma la lentezza forse voluta per far entrare lo spettatore in quel mondo, ha reso il film di una certa pesantezza e quindi di difficile visione per lo spettatore che non sia preparato a assorbire una visione di così tanti minuti.
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il testimone
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lunedì 22 marzo 2010
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noioso lento...
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Ottimo film se avete problemi ad addormentarvi (fa miracoli).....
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