Galantuomini

Se permettete, parliamo dì femmine

Le finte maschio. Come la mafiosa di Galantuomini, per cui ha vinto il premio come miglior attrice al Festival di Roma. O quelle che «l'amore è tutto». Come la perturbante zia che porta in scena a Catania. Si, ma lei che tipo è?
Chissà cosa sarebbe successo al Tribunale di Catania se l'avvocato Donatella Finocchiaro avesse seguito la sua strada invece di deviare verso il teatro e poi il cinema, con il debutto folgorante e tardivo in Angela (nel 2002, a 31 anni): la moglie del mafioso che vende coca nelle scatole da scarpe. Sarebbero bastati toga e tailleur a dissimulare la sua sensualità morbida, allusiva, mediterranea? Lei (in vestaglietta e ciabatte di spugna dell'hotel) non crede proprio: «La femminilità mina l'autorevolezza e molte donne di potere fanno di tutto per somigliare ai maschi, ma se una ha il potenziale seduttivo, mica è un problema suo. Semmai è di chi lo subisce. La bellezza della mia mastra di pratica penale, Grazia D'Urso, è nota in tribunale, ma non l'ho mai vista mortificarsi». Se è per questo, neanche Donatella. Al Festival di Roma l'hanno premiata come miglior attrice protagonista per Galantuomini di Edoardo Winspeare, dove è una piccola boss molto sboccata della Sacra corona unita che fuma come un turco, spara ordini e pallottole come un capobastone e si veste come una terrorista: eppure non molla neanche per un fotogramma il ruolo da dark lady salentina, pronta a saltare dagli anfibi ai tacchi, dal crimine alla passione. « È stato complicato, il contrasto fra il lato maschile e femminile del personaggio rischiava di essere grottesco, continuavo a ripeterlo a Winspeare. Anche perché, nella realtà, non ci sono esempi di mafiose così, forse qualcuna in Sicilia. Quando i boss sono in prigione o latitanti, mogli e le sorelle li rimpiazzano gestendo il potere da casa, non in prima linea coi picciotti».

E quindi a chi si é ispirata per costruire il suo personaggio?
«Ad Alessandra, la mia migliore amica. È una molto maschia che si rolla le sigarette. Quando non sapevo come muovermi pensavo a lei, ai suoi gesti, alle sue espressioni».

Così, per sapere, cosa fa la sua amica Alessandra, nella vita?
«Lavora in un'industria farmaceutica a Catania, che però adesso passa un brutto momento».

Per lei, invece, è un bel momento, perfino un film con John Turturro.
«Strano film, un diario di viaggio di John in Italia. II mio ruolo, per ora, è stato bussare in un convento di clausura a Mazara del Vallo, chiedendo dei dolcetti a una suora».

E poi il teatro: visto dalle nostre attrici di cinema come ripiego di fine carriera, mentre lei ci torna sempre. Da Le rane di Ronconi, coi poster di Fini, Bossi e Berlusconi che urtarono Micciché, a L'istruttoria di Claudio Fava, a Un bellissimo novembre di Ercole Patti.
«Che debutta il 18 a Catania, regia, di Mario Missiroli. Per me il teatro è il punto di partenza, devo tornarci. È la palestra che completa un attore. Per due anni, il mattino facevo pratica negli studi legali e il pomeriggio scuola di teatro: una doppia vita».

Cos'hanno in comune attore e avvocato?
«Devono essere diplomatici. Stanno sempre in mezzo a un sacco di gente».

Senza diplomazia: non sta scegliendo un po' troppi ruoli scabrosi? La Cettina di Un bellissimo novembre rimanda alle morbose malizie di Laura Antonella o Lisa Castoni: una zia seduce il nipote. Che poi inciampa e muore.
«Non credo, d'altronde la mia fisicità è questa: parlano la faccia, lo sguardo, il corpo. Missiroli, però, mi ha chiesto di non guardare il film con Gina Lollobrigida tratto dal romanzo: puntava sullo scandalo. Invece, nella riscrittura di Gaetano Savatteri e Luigi Galluzzo, Cettina è un personaggio ingenuo, inconsapevole, d'acqua e di vento. Una donna leggera nel perbenismo borghese della Sicilia anni Venti descritta da Patti. Mi fa piacere portare a teatro il testo di un siciliano, un catanese, molto meno noto di Brancati».

Per una che vive e lavora a Catania, lei è coraggiosa nelle sue prese; di posizione contro la mafia. Che aria tira in città?
«Faccio quello che posso. Se mi propongono uno spettacolo di denuncia come L'istruttoria per parlare di un giornalista ammazzato dalla mafia, è mio dovere morale e sociale farlo. Quelli del pizzo hanno fatto saltare la fabbrica di mio padre. A Catania la mentalità è mafiosa: la mafia c'è, c'è stata e ci sarà. Mi auguro sia un fenomeno che, come ha avuto un inizio, abbia una fine. Ecco, me lo auguro, per i miei figli, i miei nipoti».

Lei, i figli, li vuole fare?
«Ma non è una domanda troppo personale?».

Veda lei.
«I figli si fanno quando ci sono padre e madre. Io sono ancora un po' nomade, cerco di capire dove mettere su casa, se a Catania o a Roma. Un po' di~tempo fa questa indefinitezza mi ha anche messo in crisi, poi ho accettato il mio nomadismo, il fatto che in realtà vivo dove lavoro e questo, per un attore, vuol dire in giro. Allora, visto che avevo tre mesi liberi, sono andata a Londra a studiare l'inglese. Lo volevo fare da quando avevo diciotto anni e sono stata benissimo».

Chiamasi fuga. C'erano altri italiani al suo corso?
«Certo. Gli italiani ci sono sempre. Dappertutto».

L'hanno riconosciuta?
«A Catania non mi è capitato quasi mai, ma lì sì: delle ragazzine di vent'anni. E se non parlavo inglese mi sfottevano anche. Poi, siamo finite tutte in discoteca».
Da Il Venerdì di Repubblica, 14 novembre 2008

di Paola Zanuttini, 14 novembre 2008