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Paolo D'Agostini

La Repubblica

È iniziato un po' per caso, è proseguito per gioco. Ma un gioco serio. Abbas Kiarostami aveva inizialmente proposto una trilogia documentaristica. E indicò come ideali compagni di avventura Ermanno Olmi e Ken Loach. Non si erano mai conosciuti ma si stimavano a distanza e ognuno conosceva le opere dell'altro: la scintilla dell'intesa fu immediata. Olmi butta lì un'idea di partenza e gli altri due si adeguano: un viaggio in treno tra la Germania e l'Italia. Non un film a episodi ma un unico film in cui alcuni personaggi via via svaniscono mentre altri stanno ora sullo sfondo ora in primo piano. Il passaggio di mano in mano, da un regista all'altro, non è segnalato: anche se sono riconoscibili le diverse sensibilità, i rispettivi "tocchi".
Inizia Olmi con un attempato signore (Carlo Delle Piane) che s'innamora platonicamente, solo idealmente, di una giovane donna che lo ha accompagnato in stazione (Valeria Bruni Tedeschi), e affida al computer una lettera-confessione destinata a non essere mai completata né inviata.
Prende poi il sopravvento (Kiarostami) la figura di una donna capricciosa e arrogante, vedova di un militare neanche lei giovane (Silvana De Santis), avviata a partecipare a una cerimonia commemorativa, che vessa il suo giovane accompagnatore, un ragazzo impegnato nel servizio civile.
E nella parte finale riemerge una famiglia di immigrati clandestini - già visti sullo sfondo della prima parte, oggetto di un gesto solidale da parte del signore innamorato - che derubano un terzetto di ragazzi inglesi tifosi del Celtic, diretti a Roma per una finale di coppa. Irruenti e generosi, i tre finiranno per inguaiarsi pur di aiutare i clandestini. Più di tutti riconoscibile, questo è puro Loach come tipologia dei personaggi.
Che cosa intendevano fare, esprimere, comunicare i tre? Tre campioni di un cinema dai caratteri profondamente europei, sociali, umani, refrattario alle leggi dello spettacolo. Imbastire un intreccio di quotidiana inestricabile convivenza tra bontà e cattiveria, mettere in piedi un osservatorio sulla piccola-grande umanità che formicola, s'incontra e si lascia, in una situazione topica come è quella della condivisione di un viaggio in treno.
Un gioco leggero, si diceva (e non privo di difetti), ma non senza la volontà di gettare qua e là semi di inquietudine, dilemmi morali della vita di tutti i giorni, interrogativi che sono sotto i nostri occhi continuamente anche se la tentazione di girare la testa è prepotente sull'ingiustizia che divide chi - metaforicamente - può permettersi un "biglietto" - un ticket - e chi no.
Da La Repubblica, 25marzo 2005


di Paolo D'Agostini, 25marzo 2005

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