Un moderno e tecnologico ospedale di Tokio. Indimenticabili e sperduti villaggi dello Yunnan, nel cuore della Cina meridionale, dove è ancora viva la tradizione del teatro in maschera. Un docente alla facoltà di arti popolari orientali che sta morendo di cancro. Vicino a lui una donna bellissima, la moglie Rie che riannoda legami; lontano Takata, il padre ripudiato, l’assente. Una promessa: “tornerò in Cina il prossimo anno per sentire cantare Li-jamin”, per filmare la più grande opera in maschera che sia mai stata scritta, la storia del generale Guan Yu che, rischiando i suoi beni, intraprende un lungo viaggio per aiutare l’ amico lontano, per offrigli la sua lealtà. E un silenzio che è divenuto l’unico tessuto di una relazione filiale.
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Un moderno e tecnologico ospedale di Tokio. Indimenticabili e sperduti villaggi dello Yunnan, nel cuore della Cina meridionale, dove è ancora viva la tradizione del teatro in maschera. Un docente alla facoltà di arti popolari orientali che sta morendo di cancro. Vicino a lui una donna bellissima, la moglie Rie che riannoda legami; lontano Takata, il padre ripudiato, l’assente. Una promessa: “tornerò in Cina il prossimo anno per sentire cantare Li-jamin”, per filmare la più grande opera in maschera che sia mai stata scritta, la storia del generale Guan Yu che, rischiando i suoi beni, intraprende un lungo viaggio per aiutare l’ amico lontano, per offrigli la sua lealtà. E un silenzio che è divenuto l’unico tessuto di una relazione filiale. Un silenzio che pervade l’intera pellicola, che non trova parole se non quelle indicibili di una speranza ormai impotente, forse sconfitta. Un abisso che avvolge il cuore, gelido quanto l’eco disperato della parola addio quando ciò che ci è stato strappato è ormai terra, polvere. Un silenzio e un abisso che diventano limite, confine invalicabile, ferro spinato persino per un figlio. E’ la parabola del dolore che divide, separa; annulla ciò che di umano ancora resta, ciò che ancora resiste allo strappo lacerante della morte. E si diventa naufraghi. Improvvisamente indigenti. Prigionieri della vita e del suo senso. Risucchiati dall’assenza. Improvvisamente (più) soli, perché nessuno può abitare il dolore di un altro, assumerlo e condividerlo interamente e totalmente, annientarlo. Colmare la distanza. Mille miglia lontano… è il cuore dell’altro. Anch’egli naufrago, anch’egli sopravvissuto. Anch’egli impotente e pertanto in qualche modo colpevole. Anch’egli prigioniero di una attesa sconosciuta. Con questo suo ultimo lavoro, Zhang Ymou ritorna al cinema delle origini, ad una dimensione intimista e ci regala un film struggente e di imperfetta bellezza. Intenso e appassionato, quasi interamente interpretato da attori non protagonisti e dalla poesia di paesaggi incontaminati, catturati con sapiente maestria dalla fotografia di Zhao Xiaoding, che diventano paesaggi dell’anima, specchio del cuore. Non un film sui difficili legami familiari come è stato scritto. Non un’indagine sulle dissonanze dei rapporti tra genitori e figli. Un film sulla morte, sulla separazione, sull’incomunicabilità, sull’insufficienza del linguaggio e l’impotenza delle parole. Quelle parole che il vecchio Takata, magnificamente interpretato dal leggendario Takakura Ken, dopo la morte della moglie non conosce più, non sa più dire. Ospite di una remota isola giapponese, il villaggio dei pescatori; “una barca con le vele ammainate in un porto” senza più destinazione né meta: così la sua vita. In esilio, murato in una solitudine che lo uccide e dà morte, prigioniero di una esistenza che dismette a piccole rate. Incanta e ferisce il silenzio inscritto sul volto di questo padre che non ha mai dimenticato suo figlio, le sue rughe immote, le sue pupille dolenti, il suo disarmante pudore. Il tormento, sempre dignitoso, sempre trattenuto, per una lontananza non voluta che non sa colmare.
Eppure parte, si mette in viaggio per un paese straniero. Sente che deve andare… perché c’è un’ ultima cosa che ancora può fare per riconciliarsi con il figlio morente: ultimare il suo progetto, dargli compimento, esaudirne la promessa. E non ha più paura di affrontare una esperienza che da e-straneo lo fa straniero; in cammino verso il figlio, verso la propria interiore mendicanza a cui non aveva mai dato voce. Una mendicanza che sa farsi attesa e preghiera anche davanti alle autorità militari cinesi che devono vistare il permesso per visitare la prigione dove Li-jamin deve scontare tre anni di pena: “Direttore glielo chiedo dal più profondo del cuore mi aiuti, Direttore, io, la prego”; una preghiera affidata agli ideogrammi impressi su un drappo rosso che, in una delle più belle e intense scene del film, si leva in alto a coprire il volto di Takata, ma non le sue lacrime, non la sua disperazione. Così, nel doloroso apprendistato del suo peregrinare, il vecchio Takata sperimenta una mancanza che sa farsi accoglienza di un’altra paternità incompiuta quella di Li-jamin e del figlio che non ha mai conosciuto Yang Yang, un bambino di otto anni adottato dall’intera comunità del villaggio di pietra. E Takata, più che mai deciso a restituirli al reciproco abbraccio, si ritrova a rincorrere Yang Yang tra le rocciose montagne dello Yunnan così come, in un gioco di rimandi, rincorre il figlio Ken-ichi. E impara che l’amore è un assedio, che cerca, segue, insegue, chi vuole restare solo. Lo sa bene Rie la nuora che non esita a chiamarlo “papà”. Lei, l’amore che si fa tra-mi-te. Senza la sua premurosa generosità, senza la sua passione per l’altro, non ci sarebbe stato alcun viaggio. Un viaggio che pur non realizzando i suoi intenti ( Ken-ichi muore prima ancora che Takata riesca a filmare l’opera ) prepara un ritorno. “Adesso papà puoi tornare a casa”, lo implora la nuora. Il figlio è pronto ad accoglierlo, a riabbracciarlo. Ma Takata vuole a tutti i costi filmare Li-jamin mentre canta l’opera. Comprende dall’interno il suo dolore, non può più ignorarlo, perché in qualche modo entrambi indossano la maschera, entrambi hanno appeso alle fronde dei salici il loro canto. Anche se questa decisione non farà che ritardare ulteriormente il suo progetto. “In questo momento, la cosa più importante non è portare il bambino a Li-Jiamin ma filmare Mille Miglia Lontano” gli ricorda l’interprete che lo accompagna. Ma per Takata adesso, le due cose “sono tutte e due importanti”. Neppure la seconda impresa riesce. Takata, rispettando la volontà del bambino, non riconsegna il figlio al padre naturale, ma mostra a Li-jamin la sua faccia attraverso le foto scattate con la digitale.
E Li-jamin indossati i costumi di scena può finalmente cantare, come solo lui sa fare, l’opera millenaria “viaggio solitario, mille miglia lontano”. Canta per Takata, canta per Ken-ichi, canta per il figlioletto Yang Yang, canta per i suoi compagni di prigione. Canta per un figlio che ha scelto lo stesso destino di solitudine del padre. Canta il perdono ricevuto al di là dell’incontro dei corpi e del colloquio dei sensi, al di là dello spazio, e ora anche del tempo. Canta quell’intima e nascosta domanda di amore che ha saputo farsi sangue, strada, cammino, viaggio. Canta il dolore del ritorno.
Ken-ichi muore, ma nella sua ultima lettera scrive: “ Cosa voglio dire? Che cos’è che deve dire questo figlio a suo padre? Lo chiedo a me stesso. Perché non ho voluto vederti quando sei venuto in ospedale? …non ho fatto altro che cercare ancora una volta di scappare. Ora, non vedo l’ora che torni, papà…”. Takata torna alla sua isola, ritorna a guardare il mare nell’inquadratura finale che lo ritrae di spalle e chiude il film (quasi a ridipingere la tela di Friedrich). Questa volta, la voce off non ne rivela i pensieri. L’ultima dissolvenza risparmia ogni commiato. Nella vita, così come nella rappresentazione filmica, qualcosa di incompiuto resta… un invito a pranzo, lo stare riuniti insieme intorno alla stessa mensa. Forse una nostalgia infinita per qualcosa che non potrà più accadere, per un desiderio, qui e nell’adesso del tempo, irrealizzabile. Ma il gioco tra finzione e realtà non è sempre speculare, quasi a dire che la magia del cinema è nel meta-legame con l’ “al di là” del filmabile, il suo fascino nella capacità di mostrare ciò che nasconde e consegna al mistero. Sebbene la mdp non riprenda mai padre e figlio insieme, così li sente e li “vede” lo spettatore, riconciliati, restituiti ad una pace che lenisce le ferite del passato, il dolore per un abbraccio che manca. Mille miglia… lontano è il cuore dell’altro… ma non irraggiungibile.
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[+] bella,intensa, amara
(di n.l.)
[ - ] bella,intensa, amara
[+] certo
(di chiara)
[ - ] certo
[+] l'amore che assedia: bello!
(di ludovico)
[ - ] l'amore che assedia: bello!
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