La casa del diavolo

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Un film di Rob Zombie. Con Sid Haig, Bill Moseley, Sheri Moon Zombie, William Forsythe, Ken Foree.
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Titolo originale The Devil's Rejects. Horror, durata 101 min. - USA, Germania 2005. uscita venerdì 12 maggio 2006. MYMONETRO La casa del diavolo * * * - - valutazione media: 3,08 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

AFFINITA' BESTIALI Valutazione 2 stelle su cinque

di A.L.


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lunedì 22 maggio 2006

In una fattoria sperduta in mezzo al nulla vive una famiglia di mostri, che divora i viandanti: il confine fra noto ed ignoto è terra di esplorazione e di sfida per l’intelligenza e l’audacia umane, ed il pericolo per chi vi si addentra è di smarrire identità e ragione. L’archetipo è antichissimo, lo si trova già nell’”Odissea”, dove la capacità di sconfiggere il “disumano” segna l’atto di nascita del razionalismo pre-illuministico occidentale, ma è anche, capovolta, la situazione tipo del più conservatore dei generi cinematografici, l’horror, dove emerge insopprimibile e inconciliabile, sconfitto provvisoriamente, il male. “La casa dei 1000 corpi”, opera prima dell’ex leader di un celebre complesso rock, Robert Cummings, in arte Rob Zombie, rielaborava, sperimentando un mix delirante di musica dura e splatter, il motivo della casa isolata piena di cadaveri, e con “Devil’’s rejects”( “i rifiuti”, tradotto in italiano con il manualistico “La casa”)non abbandona i suoi grotteschi eroi, li segue nella disperata fuga, ne racconta la tragica sconfitta. La chiave del film è l’adesione sentimentale/estetica al vitalismo deforme dei personaggi: il mondo barbarico e amorale, dove Dio, legge e giustizia si riducono a sete di vendetta e l’esistenza è caccia spietata al nemico o orgia animalesca nelle stanze di un bordello, è humus fertile per la ferocia dei massacratori. Zombie fa uscire i suoi demoni dalla clausura e li getta nel bel mezzo dell’inferno: il mitico west dei pionieri, ripreso qui nei paesaggi desertici e nella figure simbolo, messo alle strette e costretto a prendere le armi contro l’orrore, si toglie la maschera; l’epopea, nutrendosi delle sue stesse ossessioni, rivela la brutalità della sua ideologia. La vicenda di “Cockeye”, il vendicatore, è paradigmatica di un percorso di involuzione verso il tribalismo selvaggio, tragicamente parallello a quello del progresso storico. Il morbo satanico plasma il cosmo e nella galleria di corpi ripugnanti persino la grazia fisica di un volto incantevole di donna si rivoltola nel sangue e nel fango. Ma paradossalmente i mostri, grazie al rifiuto assoluto della socialità, conservano la purezza: la malvagità ha le sue fragilità nell’amore per il proprio simile e in questa zona d’ombra, al di là delle astrazioni della morale, si cela un’ironica parvenza di redenzione. Il nucleo familiare di carnefici dementi è coeso e solidale: i figli adorano padre e madre, hanno patetici ricordi di un passato felice, e la molla del loro agire è l’obbedienza alla legge di natura, da cui scaturisce la libidine sfrenata di compiere stragi. L’empietà raccapricciante è uno dei tanti volti, certo il più scabroso, della libertà istintuale, per la quale vale la pena morire: non è un caso se come in “Thelma e Louise” anche qui un’auto scoperta corre verso il vuoto. La fedeltà incondizionata all’impulso vitale motiva la trasgressione del serial killer e quella dell’artista, musicista o cineasta: il padre, veste i panni di un clown di Groucho Marx, il figlio cita “la fabbrica di cioccolato”, l’immaginario ricavabile dalle pellicole anni 70’ e rock da brivido fanno da sfondo, un burattino, rubato a “Le colline hanno gli occhi”, si acquatta deus ex-machina nell’ombra. “La casa del diavolo” invoca così la complicità dei cultori della settima arte, gli stessi sbeffeggiati nella persona del critico cinematografico consultato dallo sceriffo: questioni di affinità elettive del resto fra chi le bestialità le commette e chi le immagina.

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