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Film inglese, tratto da un romanzo inglese, diretto da un regista inglese, con attori inglesi, eccetto, ovviamente, il folle artista fallito, interpretato dal neozelandese Marton Csokas.
La drammaticità dell’azione è trattenuta, repressa, malcelata, in una gestualità essenziale ridotta al minimo, in una mimica facciale quasi inesistente, in dialoghi che alludono, rasentano, sfiorano l’argomento tabù di volta in volta messo al centro della scena, il sesso, il tradimento, la morte, come si conviene nella tradizionale compostezza british.
La finzione è d’obbligo, l’etichetta domina anche nei luoghi più impensati, come il manicomio, ed è resa con efficacia da una recitazione sobria, compassata, anaffettiva. L’impassibilità culmina nella scena della madre che assiste passivamente all’annegamento del figlio. La tragedia si consuma senza frastuono, ne annuncia un’altra, prevedibile, inevitabile.
L’irruzione della follia, intesa come violenta passione erotica, che non riesce a sublimarsi nell’arte, nella vita di una coppia borghese, ne distrugge la fragile relazione costruita su ruoli predefiniti dal contesto sociale, che imprigiona le emozioni della donna in una doppia gabbia, di pulsioni represse e di bon ton.
Il film di Mackenzie non cerca il facile coinvolgimento emotivo dello spettatore nel dramma, anzi. L’inerte, impotente, fredda passività che ci coglie nell’assistere alla tragedia che si consuma sotto i nostri occhi ci disturba nel nostro essere latini ed un poco ci affascina per quello spirito anglosassone che in apparenza rende tutto così sopportabile, perfino i più grandi dolori della vita.
Il romanzo di Patrick McGrath, probabilmente, offre ulteriori spunti interpretativi ed un maggiore approfondimento dei profili psicologici di alcuni personaggi chiave, lasciati un po’ in ombra nel film, come quello dello psichiatra, sebbene interpretato da un grande Ian McKellen, e delle morbose attenzioni nei confronti del suo paziente preferito, il folle rinsavito per amore della protagonista, Natasha Richardson.
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