Una lunga domenica di passioni

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Un film di Jean-Pierre Jeunet. Con Audrey Tautou, Dominique Pinon, Chantal Neuwirth, Gaspard Ulliel, Ticky Holgado.
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Titolo originale Un long dimanche de fiançailles. Drammatico, durata 132 min. - Francia 2004. uscita venerdì 11 febbraio 2005. MYMONETRO Una lunga domenica di passioni * * * - - valutazione media: 3,25 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Mathilde spera di non essere una vedova di guerra. Valutazione 4 stelle su cinque

di GreatSteven


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domenica 17 settembre 2017

UNA LUNGA DOMENICA DI PASSIONI (FR/USA, 2004) diretto da JEAN-PIERRE JEUNET. Interpretato da AUDREY TAUTOU, ANDRé DUSSOLLIER, TCHéKY KARYO, GASPARD ULLIEL, ALBERT DUPONTEL, DOMINIQUE PINON, JODIE FOSTER, MARION COTILLARD
Alla base c’è il romanzo (1991) di Sébastien Japrisot (pseudonimo anagrammatico del corso Jean-Baptiste Rossi), sceneggiato dall’autore con Guillaume Laurant. Forte dello strepitoso successo al box office de Il favoloso mondo di Amélie (2001), il cinquantenne Jeunet ha potuto permettersi di spendere quarantacinque milioni di euro per porre in immagini audiovisive gli orrori inenarrabili, fangosi e ultraviolenti della battaglia della Somme, uno degli episodi più cruenti della Prima Guerra Mondiale. Ancora una volta la protagonista è una meravigliosa A. Tautou, nei panni di Mathilde, che nel 1920 ha vent’anni e non si arrende a credere, come invece sostengono i numerosi documenti di guerra inviatile, che il fidanzato Manech, suo promesso sposo, sia stato fucilato nel gennaio 1917 in seguito ad una condanna a morte per mutilazioni volontarie, assieme ad altri quattro commilitoni (un contadino, un lestofante corso, un saldatore e un falegname). Due anni dopo la conclusione del conflitto di posizione, parte dal paesino di campagna di cui è originaria per intraprendere una meticolosa inchiesta personale per scoprire se le carte non abbiano mentito o se effettivamente una speranza che Manech sia sopravvissuto persista ancora. In una Parigi popolata da avvocati imbroglioni, notai usurai, prostitute assassine e sacerdoti che raccontano mezze verità, Mathilde (dimenticavamo: la ragazza ha perduto i genitori in tenera età, dai cinque anni è zoppa per aver contratto la polio, nonostante le origini borghesi vive con gli zii adottivi che esercitano come contadini e fa su e giù da una carrozzella incespicando pur sempre con incrollabile dignità) si rivela una tenace e testarda indagatrice che si alimenta della sua stessa memoria per continuare a sperare, in quanto è solo nella speranza che risiede l’innocenza e la fede del suo immenso e magnifico cuore. Fra le persone che rintraccia per raccogliere informazioni preziose a proposito dei compagni di trincea di Manech e su un qualunque minuscolo indizio che possa avvicinarla alla realtà dei fatti, la ragazza incontra Gemain Pire, Célestin Poux, la polacca venditrice di zucche al mercato ortofrutticolo Elodie Gold e la meretrice Tina Bernardi, condannata alla ghigliottina per aver ammazzato due pezzi grossi dell’Esercito per vendicare vittime innocenti. La memoria che aizza e anima lo spirito di gigantesca iniziativa di Mathilde ricorda anche quei frammenti di generosa curiosità degli storici che pretendono e vogliono andare oltre quanto la Storia ufficiale racconta, per conoscere quei fatti che rimangono sepolti nei dimenticatoi che i libri trascurano, con una indifferenza volenterosa e soprattutto intenzionale. Dalle immagini scaturisce una potenza di fondamentale impatto morale fin dalle sequenze introduttive, ed è un peccato che la dimensione antibellicista sia stata liquidata dai mass media con una fretta sospetta, i quali hanno naturalmente dimenticato che la violenza non può essere ripagata che con la stessa moneta: e quale violenza più sanguinaria, infamante e deturpante di un conflitto armato? Il merito della pellicola sta specialmente nel prendere di mira gli alti comandi e le loro laide nefandezze, la cui indignazione morale della storia trasforma in atroci carnefici che rimangono poi vittime della loro stessa tirannia, valore fondante della disciplina militare e tritacarne di vite umane che tralascia ogni più elementare carità. Un finale commovente in cui Mathilde, dopo mesi e mesi di investigazioni che non l’hanno fatta demordere neanche per un istante, ritrova Manech, mutilato di due dita, che costruisce, all’interno del giardino di un convento, pezzi di legno di semplice falegnameria, al quale la guerra ha lasciato una follia innocua che l’ha fatto lentamente impazzire. Impossibile trattenere le lacrime davanti a questa storia d’amore che fa incontrare i due innamorati soltanto nell’epilogo, ma procede comunque come un romanzo francese ottocentesco, la cui cadenza furiosa e il passo spedito, quantomeno a livello letterario, hanno raggiunto risultati lodevoli e forse anche meglio quasi solo al di là delle Alpi. Il film è anche particolarmente efficace nell’alternare i toni, passando con facilità, ma al contempo aggiungendovi anche una funzionale continuità, dal Kitsch all’epico, dal comico al grand-guignol, dal lirico al folkloristico, mantenendo una straordinaria soluzione che fornisce un tappeto di omogeneità che non fa perdere un colpo al procedere ordinato e temerario della trama, benché in certi casi essa appaia talmente complessa da non raccapezzarcisi più e sembri che venga messa troppa carne al fuoco. Le sognanti musiche di Angelo Badalamenti condiscono gli ambienti “tranquilli” in cui la vicenda ha luogo, mentre gli stacchi più aggressivi e tetri accompagnano le cadute dei soldati nella melma delle trincee e le esplosioni delle bombe sulla terra di nessuno. Ad aggiungersi come contributo tecnico di precipua qualità, la fotografia di Bruno Del Bonnel, in filigrana stratosferica, che tinge di giallo e marrone, colori prevalenti di un’opera davvero ragguardevole che si prende pure il gusto di effettuare citazioni cinematografiche, rammentando Tati, Tavernier, Milestone e Kubrick, come numerosi critici italiani hanno osservato con arguzia doverosa. Il momento più emozionante per quanto riguarda le fuoriuscite d’azione concitata è l’incendio dell’hangar sul cui soffitto è appeso un enorme dirigibile: una scena di tensione drammatica che scoppia come una bomba e infiamma tanto (letteralmente) le lamiere dell’aviorimessa quanto i cuori degli spettatori, in un film che tiene incollati allo schermo per centoventotto minuti di implacabile energia narrativa. Le attrici donne hanno dato meglio dei colleghi maschi nel contesto del cast, a partire da una protagonista che non ha nulla da eccepire nei rari sorrisi quanto nelle frequenti espressioni di speranzosa attesa, mentre J. Foster e M. Cotillard (vincitrice di un César come miglior attrice esordiente) sorprendono positivamente e con vivace empatia, la prima come la donna emigrata che ha dovuto sudare sette camicie per tenere unita una famiglia dilaniata dalla chiamata alle armi su base europea e la seconda nelle vesti della passeggiatrice a pagamento che fredda gli uomini detestati con sistemi tanto inavvertibili quanto spaventosi. Ma nel reparto maschile, almeno per un nome, non si può negare un A. Dussollier convincente e caparbio nel ruolo di Pierre-Marie Rouvière, l'avvocato che accompagna Mathilde negli immensi archivi bibliotecari dell'esercito.

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