Vanity Fair (2004)
Quella del 2004 è la seconda versione del film tratto dall’omonimo romanzo di William Makepeace Thackeray. La prima, del 1923, in versione muto e bianco e nero, è con la regia e scenografia di Hugo Ballin.
La versione del 2004 di Mira Nair, “specializzata” nel valorizzare e raccontare la sua bellissima terra, l’India, che nel 2001 con il film “Monsoon Wedding” la consacra a livello internazionale con il meritato Leone d’Oro alla 58^ Mostra del Cinema di Venezia, riesce a catturare l’attenzione dello spettatore sulla caducità e futilità della vanità.
Reese Witherspoon è bravissima nell’interpretare il difficilissimo ruolo di protagonista della famosissima Becky Sharp di quello che è stato definito il più bel romanzo dell’ottocento colonialista inglese, capolavoro di Thackeray, pubblicato in Inghilterra nel 1846.
Ma la vera protagonista della storia è la Vanità, e di come questa, se prende il sopravvento, conduce l’uomo, e più spesso la donna, alla miseria e alla solitudine.
Il film sa ben raccontare l’ascesa sociale di Becky Sharp dall’essere umile governante di ricche e nobili famiglie inglesi, a divenire presto sposa molto amata di un promettente e valoroso ufficiale dell’Esercito Inglese. Il matrimonio con l’affascinante James Purefoy catapulta improvvisamente e di diritto Witherspoon nelle alte sfere della altezzosa e ricchissima nobiltà londinese.
Ma spesso la vanità, quando eccessiva, rende uomini e donne ciechi nel riconoscere i propri limiti e ostinati nel perseverare temerariamente il raggiungimento di obiettivi impossibili e non meritati.
E’ allora, quando in lei la vanità prende inesorabilmente il sopravvento su tutto il resto, che Becky Sharp si convince di meritare di più, di dover possedere ancora, di andare oltre la propria condizione di donna amata, rispettata e ammirata dal proprio uomo. Ed è allora che percorre la via scellerata del compromesso occulto per ottenere danaro e del patto di sangue con il cinismo spregiudicato del ricco e potente marchese Gabriel Byrne (come sempre eccellente nelle sue interpretazione).
Il cinismo, la voracità, la possessività, la vanagloria, il narcisismo, l’egoismo, l’egocentrismo esplodono inesorabilmente in Becky Sharp rendendola irreversibilmente cieca alle grandi cose che ha già conquistato: l’amore incondizionato del suo bellissimo e fedelissimo uomo, la forte e granitica solidarietà familiare che ha consentito alla giovane coppia – ripudiata ed emarginata dalla ricchissima e potentissima Eileen Atkins - di superare difficili e dolorosi momenti di vita comune, lo splendido figlio avuto dalla forte passione e dall’amore puro di James Purefoy.
E’ a quel punto che la vanità si trasforma in caducità e futilità: l’incapacità di riconoscere il valore della cose belle che la bellissima Sharp già possiede, l’incapacità di apprezzare il grande amore che le viene incondizionatamente donato da Purefoy.
Il messaggio a quel punto è chiaro e inequivocabile: il valore che noi umani diamo all’amore e alla bellezza è determinato dalla sensibilità che possediamo, e questa sensibilità in Becky Sharp viene oscurata dalla prepotente e dirompente vanità.
Il finale del film – come quello del romanzo – dà alla protagonista una imprevedibile opportunità di riscatto. E il riscatto di Becky Sharp si concretizzerà in una terra bellissima e lontanissima dalla “vanitosa Inghilterra”, e in questa terra lontana, nei secoli, la vanità non ha mai avuto dimora: l’India.
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